
In queste settimane diversi indicatori segnalano come l’ economia mondiale sia avviata verso una nuova fase di affanno. La Commissione Europea prevede una crescita del Pil comunitario di 0,2% inferiore a quanto stimato in precedenza: 2,3% invece di 2,5% nel 2018, 2,1% invece di 2,2% nel 2019. Per l’Italia le stime di crescita, anch’esse ridotte dello 0,2%, si attestano per quest’anno all’1,3% e per il prossimo dell’1,1%.
Un dato che fa seguito a quelli inerenti alla contrazione del Pil negli ultimi due trimestri e al crollo degli ordinativi e dei fatturati dell’industria. In mercati oramai di dimensione mondiale, le decisioni politiche a livello nazionale influiscono in maniera molto relativa sugli indicatori macroeconomici di un Paese, come insegna l’attuale fase, in cui l’economia è in frenata soprattutto a causa della guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti, dell’annunciata fine della politica di creazione di moneta (“quantitative easing”) da parte della Banca Centrale Europea, delle incertezze politiche legate all’uscita del Regno Unito dalla UE.
Questo non significa assolvere il governo gialloverde perché fino ad ora l’esecutivo in carica non ha mostrato una chiara strategia per affrontare una fase economica estremamente turbolenta a livello internazionale. In primo luogo non è stata ancora chiarita una credibile strategia di riduzione del debito pubblico che, in proporzione al Pil, è il secondo più alto dell’area euro.
Anche i precedenti governi non si sono preoccupati dell’aumento del debito, ma almeno hanno evitato la pratica folle di attaccare l’euro, unico garante dei bassi tassi di interesse a cui si rifinanzia il nostro debito: se la differenza del tasso di interesse pagato dai titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi (il famoso “spread”) è sempre prossima al 3%, contro l’1,4% di 12 mesi fa, ne sono colpevoli Salvini, Di Maio e le loro compagini.
La scelta di aumentare il deficit per il 2019 rispetto a quanto consentito dagli accordi europei è un altro errore: da un lato perché determina maggiore debito pubblico, dall’altro perché le risorse che ne derivano, invece di essere impiegate in investimenti pubblici, sono dirottate su provvedimenti con un apparente sfondo sociale ma implementati a fini elettoralistici: è il caso della quota 100 previdenziale o dell’imposta piatta per le partite Iva. Infine, procedere con programmi “bandiera” al costo di ipotecare 23 miliardi futuri che, se non reperiti, faranno scattare aumenti di Iva e accise, avrà l’effetto di ridurre i consumi interni, sterilizzando quel contributo alla crescita che possono dare le politiche economiche nazionali.
La somma di queste scelte si trasforma in incertezza che, anziché rafforzare, rende ancor più debole la già fragile economia italiana.
Davide Tondani