
Storico: che merita di passare ai posteri per le conseguenze che ha avuto o potrà avere sugli eventi successivi; un termine che non di rado è abusato, specie in politica (chi non ricorda “quel” compromesso, appunto, storico che mai vide la luce?), e che anche in queste ore entra quasi di diritto in tutti i titoli dei giornali in riferimento all’accordo raggiunto, all’alba di martedì scorso, in sede di Consiglio europeo, sul Fondo per la Ripresa o Recovery Fund.
Sarà la storia, scusate il bisticcio, a dirci se quell’accordo risulterà davvero storico; per ora, in attesa del voto del Parlamento europeo, che ha l’ultima parola in fatto di bilancio dell’Unione, e di vedere i risultati che avrà, si può comunque dire che esso abbia caratteristiche non comuni, addirittura mai registrate prima a livello Ue.
Nel corso di questi mesi e anche nelle ultime settimane molte sono state le modifiche apportate all’accordo ma resta il fatto che cifre così consistenti non sono mai state stanziate per affrontare una crisi economica. Innovative, poi, sono almeno due delle caratteristiche legate al Fondo. Il debito che esso genererà sarà a carico della Ue nel suo insieme.
I finanziamenti saranno distribuiti in proporzione al danno subito dai singoli Paesi a seguito della pandemia (il presidente Conte ha parlato di poco più di 200 miliardi per l’Italia) e i controlli sulla predisposizione dei progetti e sulla loro effettiva realizzazione saranno affidati alla Commissione Ue, abbandonando in tal modo la pratica, abbastanza antipatica, di affidare tale compito a soli due o tre Paesi in grado di fare la voce più grossa.
Se è lecito esultare per questo ritrovato spirito di reciproco aiuto da parte dell’Unione europea, non si può comunque far finta che sul tappeto non siano rimasti problemi di non poco conto.
Il primo è rappresentato dall’ostinazione dei Paesi “frugali” – Olanda, Austria, Svezia, Danimarca e Finlandia – a preoccuparsi più di proteggere i propri interessi nazionali che di ricercare punti di intesa capaci di far fare passi in avanti all’idea di un’Europa che guarda al federalismo; una posizione condivisa anche dalle recenti democrazie dell’Est europeo.
Tale atteggiamento rischia di rimandare sine die la soluzione di un problema che l’Ue condivide con altri organismi sovranazionali: l’unanimità richiesta per l’adozione di provvedimenti di rilievo, in questo caso in campo economico.
Se da una parte è abbastanza fastidioso che Paesi che, nel loro insieme, rappresentano 1/10 dell’intera popolazione dell’Unione possano bloccare un negoziato finché non siano soddisfatte le loro richieste, dall’altra è comunque significativo che su argomenti cruciali si debba cercare il consenso di tutti, proprio per stoppare in partenza le voglie di rottura che di tanto in tanto vengono alla ribalta.
Antonio Ricci