
Domenica 23 settembre, XXV del Tempo Ordinario
(Sap 2,12.17-20; Giac 3,16-4,3; Mc 9,30-37)
Gesù cerca di raggiungere Gerusalemme, discendendo dalle pendici dell’Hermon, e passando per Cafarnao in Galilea. Camminando, continua a spiegare: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essere consegnato indica che sarà in potere di qualcuno. Gesù sarà sempre un soggetto passivo di tale azione: consegnato da Giuda ai sacerdoti, dai sacerdoti a Pilato, da Pilato ai carnefici perché fosse crocifisso.
La passività della forma verbale significa che non è un fatto accidentale (“a Gesù è andata male…”), ma è un’indicazione di comportamento per i suoi seguaci: un giusto non si vendica, non si sottrae al rigetto, all’odio e alla persecuzione. In un mondo di ingiusti, il giusto non può che patire ed essere condannato. Dio non vuole la morte di Gesù, ma vuole che il giusto resti tale, continuando ad “amare fino alla fine”. Il giusto, piuttosto che compiere il male, si lascia consegnare.
Come Pietro poco fa, ora tutti i discepoli si rifiutano di comprendere le sue parole e non fanno domande. Lui parla di donazione totale, di offerta di sé, nella crudezza della croce e nel mistero della risurrezione. Ma loro sono presi dall’ansia di raggiungere i posti migliori, di avere visibilità. Ma, alla prima sosta, a Cafarnao, è Gesù che fa loro una domanda: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”.
Segue un silenzio pieno di vergogna. Sono persone come noi. Uomini semplici, seguaci di questo Maestro che parla e agisce con una autorità mai vista prima, ma che ora fa discorsi poco ragionevoli, pressoché incomprensibili. Tacciono: hanno paura di fare brutta figura. Avevano rivaleggiato gli uni con gli altri, avanzando pretese di riconoscimento, e anche di potere.
Gesù per spiegarsi compie un gesto. Prende un bambino, lo mette al centro, lo abbraccia teneramente e afferma: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Un escluso è posto in mezzo a un’assemblea di uomini destinati ad avere il primo posto nelle comunità future.
Il messaggio è chiaro: Gesù non designa i primi, indica un cammino: chi si fa ultimo, e servo di tutti, si troverà ad avere il primo posto, a essere il primo dei fratelli. Il primo nella Chiesa dovrebbe essere colui che serve tutti e che sa anche stare all’ultimo posto.
Molto spesso nelle nostre comunità si sceglie il più brillante, il più visibile, magari il più intelligente o il più forte, qualche volta perfino il più prepotente, lo si acclama primo e poi gli si fanno gli auguri di essere ultimo e servo di tutti. Ognuno di noi, nel proprio ambito ha avuto modo di essere al primo posto. Oggi, nella Chiesa e nella società, la selezione della classe dirigente è un problema cruciale.
Il metodo che ci propone il Maestro è radicale: siamo degni di quel posto solo se sappiamo tenere l’ultimo posto, e se lo occupiamo per essere servi, senza sogni o tentativi di potere, senza ricerca di successo, senza organizzare il consenso attorno a noi e senza essere prepotenti con gli altri. Ciò che minaccia il servizio è il non essere servi degli altri, il fare da padrone sugli altri.
Nella Chiesa non c’è spazio per litigare per questioni di posti. Il posto del discepolo è uno solo: la croce del Maestro. Sulla croce la grandezza non la dona il legno, ma l’amore.
Pierantonio e Davide Furfori