I nodi della politica economica davanti alle prospettive di crescita della produzione. Per evitare che la crescita sia a beneficio di pochi
La risalita del Pil italiano nel 2021 è più forte delle attese: +6,1%, 2 punti in più rispetto alle stime di aprile, seguito da un ulteriore +4,1% nel 2022. Sono cifre rese note recentemente dal Centro Studi Confindustria. Stime ancor più ottimiste di quelle solitamente “generose” del governo (+6%). In assenza di shock improvvisi l’economia italiana tra 2021 e 2022 segnerebbe un +10%, dopo il quasi -9% del 2020. Insomma, l’economia nazionale tornerebbe sopra i livelli pre-pandemia già nella prima metà del 2022.
A trascinare la ripresa saranno soprattutto gli investimenti, che aumenteranno del 17,7%, nonostante il freno dell’aumento dei prezzi delle materie prime e i notevoli rallentamenti nelle catene globali della logistica e dell’offerta di molti beni tecnologici. Dopo anni di stagnazione dei prezzi, determinata anche da un sistema economico “fiacco”, l’inflazione si dovrebbe assestare al +1,8% nel 2021 (da -0,3% nel 2020): cifre non preoccupanti se si considera che l’obiettivo di riferimento della BCE è un’inflazione al 2% e che nel 2022 si prospetta un indice al +1,4%.
Sono tanti i fattori che determinano cifre così rosee. Principalmente ci troviamo davanti ad un elemento statistico: vista la forte riduzione del Pil del 2020, l’aumento di quello del 2021, in termini percentuali, sarà molto vistoso: è ciò che i giornalisti definiscono “rimbalzo”. C’è poi la ripresa della spesa pubblica, dopo oltre un decennio di austerità: gli investimenti, al momento, sono trainati dagli incentivi sulle ristrutturazioni e dagli investimenti pubblici messi in campo dal governo.
E poi la prosecuzione della politica monetaria espansiva della BCE, che assicura tassi di interesse sempre ai minimi storici, la fiducia nella fine della pandemia e nell’effetto volano che offriranno i fondi europei del PNRR.
Certo, in un’economia globalizzata gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo, come dimostra la preoccupante crescita dei prezzi dei prodotti energetici di queste settimane, ma per ora la crescita economica è reale e si spera sia duratura.
C’è però un lato oscuro della ripresa economica che non può essere cancellato. Il problema di fondo è che una variazione del PIL, ancorché ampiamente positiva, non si traduce automaticamente in un maggior benessere per la collettività. Le tesi contrarie all’utilizzo del PIL come indicatore di benessere sociale fanno fatica ad affermarsi anche in questa fase in cui la crisi ambientale legata all’attività produttiva dell’uomo si fa sempre più evidente.
Quanto della crescita economica stimata nei prossimi due anni sarà ambientalmente sostenibile? E di quanto si ridurrebbe la crescita del PIL se si prendesse in considerazione anche il conseguente maggior inquinamento?
Il tema della transizione ecologica nel futuro dell’economia italiana di settimana in settimana viene sempre più oscurato, o utilizzato per dipingere scenari catastrofici dal punto di vista degli stili di vita o dell’occupazione. Eppure, anche omettendo ogni preoccupazione per il futuro del Pianeta, la crescita del PIL annunciata per il 2021 e il 2022 non promette nulla di buono sotto il profilo lavorativo.
Le stime di tutti i centri studi sono unanimi nel prevedere che la disoccupazione resterà alta fino al 2022: ci sarà sì un aumento delle persone in cerca di occupazione (il tasso di attività) ma non altrettanti nuovi posti di lavoro; il tasso di disoccupazione crescerà progressivamente, tornando a fine 2021 vicino al suo valore pre-crisi (9,9%) e riducendosi al 9,6% nel 2022, secondo Confindustria.
A questo dato si associa una situazione salariale che vede il potere d’acquisto dei lavoratori italiani sottoposto ad una fase di costante erosione. Nel 2020 in Italia sono stati erogati 40 miliardi in meno di salari, con una riduzione del 7,5% rispetto al 2019 (la media europea è -1,9%), dice Eurostat.
E guardando ad una prospettiva temporale più ampia, emerge un dato pesantissimo: l’Italia è l’unica tra le economie avanzate dove dal 1990 ad oggi, i salari reali sono diminuiti: -2,9% per le retribuzioni nel nostro Paese, mentre nello stesso periodo in Francia e Germania i salari medi sono cresciuti più del 30%. È in questo contesto che sono cresciute disuguaglianze e povertà, anche tra chi è occupato.
La scorsa settimana Caritas ha denunciato come la pandemia abbia generato un milione di poveri in più nel Paese. Se questo è il contesto, il rischio è che dai frutti dell’annunciata ripresa economica siano escluse ampie fasce della popolazione: i ceti popolari e quel ceto medio che ha visto erodere negli ultimi decenni il proprio benessere.
Non è ancora chiaro come il governo intenda affrontare questi temi. Da più parti si invoca l’istituzione, anche in Italia, di un salario minimo legale, tema su cui si sono registrate importanti aperture anche dal sindacato, ma che non sembra all’ordine del giorno a Palazzo Chigi; la riforma fiscale promessa dal ministro Franco non sembra spostare il grosso del carico fiscale dai “pagatori sicuri”, cioè dipendenti e pensionati; l’assalto ideologico verso il Reddito di cittadinanza assume tra alcune forze di maggioranza il tono di una guerra ai poveri; lo sblocco dei licenziamenti ha aperto numerosi tavoli di crisi ancora irrisolti e all’orizzonte fa fatica a profilarsi una salvaguardia del lavoro dalle delocalizzazioni: sono solo alcuni dei problemi che Mario Draghi deve affrontare, facendo scelte di campo che potrebbero disunire la sua composita maggioranza, se vuole che della ripresa economica benefici l’intera collettività e non una ristretta classe agiata.
(Davide Tondani)