
Il gruppo dei Brics capitanato da Cina, India e Russia si arricchisce di cinque nuovi membri. Le prospettive di un’aggregazione che potrebbe diventare un gigante politico ed economico.

Il 2024 appena cominciato ha recato con sé notizie che qualificano una volta di più il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo; il primo giorno dell’anno la Russia ha assunto la presidenza di turno del gruppo dei Brics (l’acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), cioè i “mattoni” delle cosiddette economie emergenti.
Per Putin un palcoscenico non da poco, a quasi due anni dall’invasione dell’Ucraina, all’indomani della quale i mass media più acriticamente schierati parlarono di un leader oramai isolato. Nell’anno in corso l’autocrate di Mosca sarà a capo di un gruppo di paesi, fondato nel 2009, che sfidando la leadership economica del G7 e il dominio del dollaro mira esplicitamente a “costruire un ordine mondiale multipolare”.
Con il primo gennaio entrano ufficialmente a fare parte del gruppo cinque dei sei Stati che annunciarono la loro adesione ai Brics nel summit di Johannesburg, lo scorso agosto: Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Egitto. Solo l’Argentina si è sfilata dall’adesione dopo l’elezione alla presidenza dell’eccentrico ultraliberista Javier Milei, fedele agli Stati Uniti.
Nella nuova formazione a 10 stati, il gruppo dei Brics arriverà a contare 3,6 miliardi di persone (il 48% della popolazione mondiale, contro il 10% del G7) e peserà nell’economia mondiale per il 32% del PIL (era solo il 15% vent’anni fa), trainata dalla Cina che da sola conta per il 20% del reddito prodotto a livello mondiale.
Certo, il PIL del G7 rappresenta ben il 60% di quello mondiale ma se si ragionasse in termini di parità di poteri di acquisto il gruppo degli emergenti passerebbe in vantaggio, così come è in netto vantaggio nel commercio internazionale, con oltre 990 mila miliardi di dollari di esportazioni contro 755 mila miliardi dei paesi del G7.
Sotto il profilo politico l’eterogeneità dei Brics è evidente. Democrazie fragili come quella brasiliana o contraddittorie come quelle indiana ed etiope si coordinano con il totalitarismo cinese, l’autocrazia russa e le monarchie assolute di Arabia e Emirati.
Ma il loro crescente successo economico mette in crisi una consolidata letteratura secondo la quale è la democrazia liberale ad assicurare le migliori performance di crescita del reddito prodotto.
Anche i riferimenti culturali dei Brics sono molto diversi e le loro visioni di politica estera non sempre coincidono. Per questo alcuni osservatori di politica internazionale si sono spinti a dire che le economie emergenti non rappresentano un rivale geopolitico dell’Occidente.
Ma la crisi in Medioriente sta dimostrando il contrario: il Sud Africa ha denunciato Netanyahu al Tribunale Penale Internazionale, mentre l’Arabia, che per 9 anni ha combattuto gli Houthi, si è dissociata dai raid angloamericani contro i ribelli yemeniti che attaccano le navi nel Mar Rosso.
Ryad ha invocato una mediazione di Pechino per siglare una pace nel nord Yemen, contemporaneamente l’Iran – con cui il nemico Biden ha ammesso di avere aperto contatti diplomatici – ha mandato un proprio cacciatorpediniere nel Mar Rosso: il conflitto regionale che potrebbe deflagrare come conseguenza della feroce rappresaglia israeliana a Gaza (che Europa e Stati Uniti non hanno ostacolato) darebbe ai Brics l’opportunità di cementarsi in maniera più esplicita come blocco anti-occidentale.
Proprio nell’area mediorientale i paesi emergenti possono inoltre disporre di un’arma potentissima. Con l’ingresso nel gruppo di Egitto, Etiopia e Arabia Saudita, i Brics circondano il Canale di Suez, un’arteria chiave dell’economia mondiale attraverso la quale passa circa il 12% di tutto il commercio globale.
Insomma, se a questo quadro si aggiunge il fatto che altri paesi (addirittura trenta, secondo Putin) sono disposti ad entrare nel club a trazione indiana e cinese, ci sono tutti gli elementi per un ipotetico ritorno ad un mondo diviso in blocchi, in cui l’egemonia occidentale, che con la fine del comunismo qualcuno diede per definitivamente conseguita, venga messa in discussione da nuove potenze, in una fase storica in cui le democrazie liberali e il sistema capitalistico su cui si innestano mostrano molti segni di usura: con il potere concesso ad una ristretta oligarchia finanziaria di ottenere in un mercato senza regole profitti enormi si sono ampliate le disuguaglianze (come racconta anche il Rapporto Oxfam citato nel nostro editoriale di questa settimana) e si è ridotto il potere d’influenza sulle decisioni politiche del voto dei cittadini.
La qualità della democrazia ne soffre, e con essa la capacità di una civiltà, la nostra, di esercitare non soltanto una leadership economica, ma soprattutto una forza di attrazione nei confronti delle altre nazioni, per accompagnarle verso un modello di convivenza basato su una effettiva libertà individuale e un’autentica giustizia sociale, dentro gli Stati e tra gli Stati.
(Davide Tondani)