
Domenica 21 giugno – XII del tempo ordinario
(Ger 20,10-13; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33)
Tu lo sai che alla fine è quello che vogliamo, quello di cui abbiamo davvero bisogno, quello per cui il nostro vivere spesso assume i toni di una lotta. Alla fine il resto conta nulla, conta solo che qualcuno ci riconosca, le tue parole Signore, alla fine di questa pagina di Vangelo, sono commovete speranza: chi riconosce “anch’io lo riconoscerò”.
Una pagina in cui sembrava Tu stessi parlando del volto di Dio e di come cura perfino i passeri e conta i capelli del capo e oppone luce a tenebre e terrazze a contrastare nascondimento, sembrava tu stessi parlando di Lui e noi ti stavamo seguendo rapiti e leggeri e invece, invece anche stavolta parlando di Dio stavi parlando a noi di noi, stavi accarezzando lieve i nostri timori, stavi scendendo a rassicurare le nostre aspirazioni: non abbiate paura, se riconoscete io vi riconoscerò.
Noi abbiamo bisogno di riconoscimento, che non è il premio di un momento, nemmeno l’illusione di essere indispensabili, non è il grazie gridato in piazza, riconoscere è conoscere più volte. È moltiplicare all’infinito il processo di conoscenza profonda del nostro essere, è avere qualcuno che non si stanca di camminare dentro i nostri sentieri, anche i più tortuosi e bui. È avere occhi che ci guardano e poi ci guardano ancora e ancora… e conservano stupore. Essere riconosciuti non c’entra nulla con la fama, essere riconosciuti è più questione di “fame”, la fame di sguardi e parole e baci e carezze e attenzioni. L’uomo vive se ha radici affondate nella riconoscenza gratuita e stupita di un amore. Se la sua fame di essere ri-conosciuto è riempita d’attenzione.
Lo dici tu stesso Signore, il contrario del “riconoscere” è il “rinnegare”, che significa negare ripetutamente, annientare, annullare, svalutare. Quello uccide davvero, di quello bisogna avere paura, più delle persone che uccidono il corpo, perché chi ti annienta, chi ti nega, ti uccide dentro. E camminare con la morte al posto del cuore è peggio che non respirare più.
Avere fede è credere e riconoscere la bellezza della vita, è trovare qualcuno di cui fidarsi e davanti a cui svelarsi, completamente, senza censura, nudi e fragili. Avere fede è non avere paura degli uomini, nemmeno di noi stessi, e continuare invece ad interrogarsi e a conoscersi, giorno dopo giorno, scendendo in profondità, innamorandoci anche delle parti più buie del nostro essere. Credere è non rinnegare mai la complessa umanità che ci abita, è non negare mai la vita quando un fratello o una sorella si consegnano fragili alle nostre cure.
don Alessandro Deho’