Le imponenti agitazioni del biennio rosso dopo la Grande Guerra

Al termine del primo conflitto mondiale non ci fu pace: la grave crisi economica del 1919 avvia una stagione di scioperi e nel 1920 il governo si dimette 

25Biennio_rossoL’Italia nel biennio 1919-’20 fa esperienza delle più forti agitazioni economiche e sociali della sua storia unitaria. Nel 1919 si persero oltre 22 milioni di giornate lavorative. Le rivendicazioni degli scioperanti erano la giornata lavorativa di otto ore, la difesa del posto di lavoro e dei salari per far fronte ai licenziamenti dovuti alla riconversione a produzione di pace dell’industria di guerra e all’enorme inflazione.
Nel giugno 1920 si dimette il governo Nitti per gli scioperi e tumulti provocati dall’aumento del prezzo del pane, ma era l’intera classe dirigente liberale in forte crisi politica, senza una struttura moderna di partito, scossa nel suo prestigio, incerta e divisa.
L’incarico di governo dato al vecchio abile mediatore Giolitti non servì a fare riforme strutturali, a riequilibrare il potere del Parlamento sopraffatto dall’esecutivo, la sua proposta di fare equità fiscale col rendere nominativi i titoli azionari incontrò l’ostilità di parte della borghesia e dei nazionalisti e anche del Vaticano detentore di molti titoli non nominativi.
25Biennio_rosso1I Consigli di fabbrica, il primo alla Fiat nel settembre 1919, si devono confrontare con la controffensiva di Confindustria e Confagricoltura. La Fiom sindacato dei metallurgici fa ostruzionismo e il 30 agosto 1920 decide l’occupazione delle fabbriche. L’offensiva del movimento operaio si scontra con le serrate dei padroni ma deve fare i conti anche con due tendenze inconciliabili del partito socialista: ottenere riforme trattando col potere borghese e quella di fare la rivoluzione sull’onda dei soviet russi (scelta questa a cui i sindacati erano contrari) ma accusata di “rivoluzionarismo verbale incapace nei fatti” dall’Ordine Nuovo di Gramsci e Bordiga, contrasto che porterà alla scissione comunista del gennaio 1921.
Tutto il mondo del lavoro nel “biennio rosso” si agita: scioperano gli operai delle fabbriche, ferrovieri, postelegrafonici, braccianti di val Padana, mezzadri dell’Italia centrale, perfino gli impiegati dei ministeri. Nel mondo agricolo operava la parte prevalente dei 39 milioni di abitanti dell’Italia. I contadini occupano nel 1919 le terre dei proprietari terrieri nell’Italia meridionale, nel Lazio e costringono il governo a legalizzare il fatto compiuto.
Nel giugno in molte città si hanno agitazioni anche violente contro il carovita, a settembre il colpo di mano di D’Annunzio su Fiume, a novembre le elezioni politiche vinte dai socialisti, forte l’affermazione di popolari e crollo dei liberali.
Anche in Lunigiana ci sono manifestazioni: ad Aulla, Albiano, Bibola contro il carovita e qualche assalto ai negozi, l’Organizzazione operaia di Pontremoli invitava a disertare il lavoro, molto attivo il sindacato ferrovieri, si fanno comizi, quasi ovunque nascono sezioni socialiste riformiste e Leghe, la Camera del lavoro di Carrara si occupa del settore del marmo anche per le valli del Bardine e dell’Aullela, quella della Spezia per il resto della Val di Magra.
Altro fronte di tensioni è fra i militari, inaspettato e inquietante per la stabilità governativa è il 10 giugno 1920 l’ammutinamento di un gruppo d’assalto dei bersaglieri ad Ancona in attesa di partire per l’Albania occupata militarmente dall’Italia e in rivolta. I ribelli hanno la solidarietà di altre truppe, la disobbedienza agli ordini si estende in tutte le Marche, a Trieste, in Romagna, a Cremona e Milano, a Terni e Narni in Umbria, a Roma. Il sindacato ferrovieri di Ancona sciopera per impedire l’arrivo delle guardie regie a reprimere, è la Marina a sedare il tumulto.
I socialisti, primo partito anche nelle amministrative del novembre 1920, avevano raccolto i voti dei tanti cittadini delusi e in difficoltà, ma mancavano di una qualsiasi linea politica osserva lo storico Giuliano Procacci; i velleitari rimandano al domani scelte decisive, i riformisti guidati da Filippo Turati sono riluttanti ad assumersi responsabilità precise, temono una volta al governo di essere coinvolti nella bancarotta dello Stato borghese e non vogliono coalizione coi Popolari.
Da questo complesso quadro di agitazioni la classe operaia esce stanca e preoccupata della disoccupazione; alla fine vincitori sono gli industriali e gli agrari che ritengono i neonati Fasci di combattimento utili a contrastare il movimento operaio e li finanziano, convinti che il fascismo avrebbe avuto breve vita, fenomeno emotivo più che politico se ne sarebbero sbarazzati al momento giusto. Le squadre fasciste assalgono le sedi sindacali e socialiste a volte con la complicità dell’esercito e dell’esecutivo e preparano a breve termine la nascita di uno stato totalitario, dominato dagli interessi capitalistici di pochi grandi industriali e poteri finanziari. Tra divisioni, incertezze e violenza squadrista fallirono le giuste rivendicazioni del “biennio rosso”.

Maria Luisa Simoncelli