
Comunque la si voglia mettere, la “confessione” di Cesare Battisti sui quattro attentati per i quali è stato condannato in via definitiva all’ergastolo rappresenta un punto di non ritorno che non può essere ignorato. Si dirà: tutta farina degli avvocati; disperato tentativo di poter godere, in futuro, dei benefici di riduzione della pena; gesto che non comporta nessuna conseguenza per l’autore; scuse che giungono fuori tempo massimo. Tutto vero ma, fino a ieri, per chi voleva a tutti i costi credere nella sua estraneità ai fatti c’erano le sue dichiarazioni a supporto di quella tesi.
Oggi non è più così. Nessuno può più dire che Battisti è un perseguitato dalla giustizia italiana e questo è un fatto di non poco conto. Non ridà la vita alle vittime, così come non darà – e si può capire – pace ai loro parenti; con tutta probabilità non li indurrà nemmeno al perdono.
Tuttavia, sentir dire da chi si è sempre dichiarato “perseguitato” che i giudici che lo hanno condannato avevano ragione, che la lotta armata ha “ucciso il Sessantotto” ed è stata un errore può aiutare a ristabilire un bel pezzo di storia del nostro Paese.
C’è, poi, almeno un’altra considerazione da fare in proposito. Dal 1981, quando è evaso dal carcere di Frosinone, fino allo scorso gennaio, Battisti ha vissuto senza interruzione in clandestinità: in Francia, in Messico, di nuovo in Francia, poi in Brasile e in Bolivia, dove è stato catturato ed estradato in Italia. In tutta questa serie di residenze, ha potuto usufruire di protezioni tutte basate sulla teoria del complotto e della persecuzione, godendo dello stato di rifugiato politico.
Questo vale soprattutto per la Francia e per il Brasile che, grazie a Mitterand la prima e a Lula il secondo, con le loro scelte di fatto hanno accusato l’Italia di essere uno Stato ingiusto e oppressivo. Per non parlare della campagne a sostegno della “vittima” Battisti portate avanti da fior di intellettuali, soprattutto, d’oltralpe.
A rigore di logica, alle scuse che, più o meno sinceramente, ha espresso Battisti dovrebbero aggiungersi quelle di quanti, ancora in vita, hanno aderito ad un sistema di disinformazione che ne ha favorito per tanti anni la latitanza.
Al di là di queste ed altre considerazioni che si potrebbero fare, restiamo, però, ancorati ad un’idea che si fonda sul Vangelo, per chi crede in esso, ma anche sulla Costituzione, meglio ancora se si crede ad entrambi. Il gesto del perdono non può legarsi ad un obbligo, non può essere imposto: deve nascere da un cuore ispirato da un amore che travalica i sentimenti umani.
Nel contempo, con tutte le difficoltà legate alla sua attuazione, l’articolo 27 per il quale “le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato” non può mai essere respinto, pena la rinuncia a credere nell’uomo e nella sua capacità di redimersi.
Antonio Ricci