Domenica 31 marzo, IV di Quaresima
(Gs 5,9-12; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32)
La famosissima parabola proposta dalla liturgia della parola della quarta domenica di quaresima è spesso stata considerata nella sola prima parte. Tanto che si è sempre indicata come la “parabola del figliol prodigo”. Detto figlio decide di andarsene da casa chiedendo al padre la propria parte di eredità. In pratica è come se dichiarasse che ha bisogno di vivere liberamente la propria vita e, per lui, il padre è morto e sepolto.
Nella vita reale l’evento è raro, ma nella vita spirituale avviene di frequente. Lontano da casa il figlio scopre che i beni che il padre gli ha donato, inseriti in un contesto dominato dall’egoismo, si dissolvono in fretta. Si ritrova abbandonato, povero e costretto a vivere di espedienti per saziare la propria fame.
A questo punto si ricorda del padre e prepara il discorso da fare per tornare ed essere assunto come servo. Se ipotizziamo il motivo del suo ritorno come una semplice ricerca di pane fisico, dobbiamo riconoscere che l’amara esperienza non l’ha cambiato in meglio. Se, invece, la fame è spirituale allora il ritorno è un piccolo primo passo in avanti.
Gesù propone la parabola perché farisei e scribi contestavano con forza il fatto che Egli pranzasse con i pubblicani ed i peccatori che, impuri, rendevano impuro il cibo. Mangiando quel cibo anche Gesù diveniva impuro. Il fratello maggiore della parabola rappresenta proprio scribi e farisei e spinge a meditare anche noi che frequentiamo e ci impegniamo nella Chiesa.
Il fratello maggiore che ha faticato tutto il giorno nei campi rientra e trova una festa per il ritorno del fratello minore al quale il padre ha restituito la dignità di figlio (la veste lunga) la disponibilità del patrimonio (l’anello) e la libertà (i calzari). Ciò lo fa andare su tutte le furie, non entra in casa e non ascolta le ragioni del padre. Gli rinfaccia di non aver avuto nemmeno un capretto per festeggiare con gli amici.
Illuminante la parola “padre”. Nel brano viene utilizzata tredici volte. Sette nel racconto, una sulla bocca dei servi e cinque su quella del figlio minore. Il figlio maggiore non la usa mai. Ciò a indicare che il suo rapporto con il genitore che non è padre-figlio ma padrone-servo. Per questo non si è mai azzardato a prendere il capretto per festeggiare con gli amici.
Il padre ama entrambi i figli, condivide con loro i beni (al secondo ha dato la parte di eredità ed al primo ha detto “tutto ciò che è mio è tuo”) ed è preoccupato per entrambi. Infatti, subito dopo che il figlio più giovane se ne è andato in malo modo, ha iniziato ad aspettarlo scrutando costantemente l’orizzonte nella speranza di vederlo tornare.
Ama anche il figlio maggiore, per questo lo lascia libero anche se soffre nel vederlo soprattutto impegnato a seguire regole stringenti, senza lasciare spazio al sentimento di amore. Nessuno dei suoi figli riesce a capirlo, nessuno riesce ad amarlo, nessuno riesce ad essere felice. Tuttavia non smette di amare.
Penso che ognuno abbia una dose più o meno grande della mentalità di ciascuno dei due fratelli. Esserne consapevoli e cercare di andare verso la mentalità del Padre è un buon modo di vivere la quaresima.
Pier Angelo Sordi