
II domenica di Pasqua
(At 2,42-47; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31)
Anticamente la prima domenica dopo Pasqua era detta domenica in albis (deponendis), perché era il giorno in cui i neo-battezzati deponevano la veste bianca, con la quale erano stati rivestiti otto giorni prima. Quel gesto, compiuto davanti a tutti voleva dire che la Grazia del Battesimo era scesa nel profondo, era stata assimilata, e non aveva più bisogno di essere manifestata esteriormente con un abito particolare. Anche per noi ciò che conta è vivere la Grazia del Battesimo nella vita quotidiana.
Recentemente san Giovanni Paolo II ha intitolato questa domenica alla Divina Misericordia, sottolineando un aspetto che San Giovanni oggi ci racconta. Comincia una nuova settimana. I discepoli si riuniscono, in un luogo reso sicuro dalle porte sprangate, perché hanno paura dei loro concittadini. Sono successe molte cose di cui devono parlare. Pietro e Giovanni sono andati al sepolcro, e l’hanno trovato scoperchiato e vuoto. E Maria di Màgdala afferma addirittura di aver incontrato Gesù, risorto dai morti.
All’improvviso, senza che nessuna porta sia stata aperta, Gesù compare in mezzo a loro, e come conoscendo i loro timori, la prima cosa che dice loro è: “Pace a voi!”. La vista del loro Maestro fuga nei discepoli ogni dubbio: non è un fantasma, ha pure evidenti le ferite dei chiodi. Ma non è venuto solo per tranquillizzarli, è di nuovo con loro per dare loro la sua ultima consegna: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati.” Messa così, è facile immaginare questo come un’investitura di potere: il Figlio dona ai suoi apostoli il dominio sul peccato, di cui potranno liberamente usare d’ora in poi, ma non è così semplice: il Maestro sta investendo loro, e noi, della precisa responsabilità di perdonare. Il perdono non è un potere di cui possiamo disporre a nostro piacimento, è un obbligo che abbiamo nei confronti del prossimo. Senza di esso, condanniamo lui e noi stessi. Con esso, siamo salvati entrambi.
Tra i presenti alla comparsa di Gesù manca Tommaso, ma quando si precipitano da lui affermando di aver visto il Maestro risorto, questi, come molti anche tra noi, chiede delle prove: vuole vederlo lui stesso, ma non solo, vuole toccare le sue ferite, allora crederà. E Tommaso ottiene quanto ha chiesto: otto giorni più tardi, Gesù si manifesta di nuovo in mezzo ai discepoli, compreso Tommaso, cui il Maestro si rivolge direttamente: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco[…] Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Non è un elogio della credulità, ma un invito a lasciare aperto il cuore, ad avere fiducia in Dio e nei fratelli, quella fiducia che permette di relazionarci gli uni con gli altri di crescere, che è necessaria ad impedire che il dubbio degeneri in sterile scetticismo fine a se stesso, che è il solo mezzo attraverso cui “[avere] la vita”, come scrive Giovanni a conclusione del suo Vangelo.
Pierantonio e Davide Furfori