
Domenica 27 ottobre. XXX del Tempo ordinario
(Sir 35,15-17.20-22; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14)
La liturgia di domenica scorsa rispondeva alla domanda: “quando pregare?” e suggeriva di pregare sempre, senza stancarsi, con fede. La liturgia di oggi risponde alla domanda: “come pregare?” “In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”.
Gesù si rivolge ai credenti che, a causa della loro accurata osservanza della legge, e della loro frequente pratica religiosa, si ritengono giusti di fronte a Dio, e, spesso, finiscono per disprezzare gli altri. Ci racconta di due uomini che salgono al tempio per pregare. Uno è un fariseo, ligio alle regole della Legge, l’altro fa il pubblicano, l’esattore delle tasse per conto degli odiati romani, ingiusto e malvisto, simbolo dei peccatori pubblici.
Entrambi si rivolgono a Dio, ma in modo diverso. Il fariseo, “stando in piedi”, si esalta perché si sente giusto, rivendica che tutto quello che fa è solo merito suo, nega la presenza di Dio nella sua vita. La sua preghiera non esce neppure dal Tempio, presa da tutte le cose umane, non riesce ad arrivare al cuore di Dio. Lui ritiene di bastare a se stesso. Il pubblicano “fermatosi a distanza”, non entra neppure nel Tempio, ha il capo chino. Non si sente degno, sa di non aver fatto nulla di bene, ma sa chiedere perdono. Non ha fatto nulla, se non qualcosa di male. Più che la categoria di appartenenza, conta l’atteggiamento interiore. È facile leggere questo passo come una delle numerose polemiche contro i farisei, ma non dobbiamo dimenticare che questo Vangelo è per noi, ci insegna che la preghiera riguarda il nostro modo di vivere, la nostra relazione con Dio, con noi stessi e con il prossimo. Una tentazione per tutti i cristiani, da sempre, è quella di considerarsi giustificati per il fatto stesso di essere tali.
Gesù oggi ci chiarisce che l’importante è l’atteggiamento nei confronti di Dio, la consapevolezza della nostra assoluta necessità di salvezza. Il fariseo sarà escluso dalla giustificazione non per le sue parole, e neppure per il suo stile di vita, ma per l’atteggiamento con cui si rivolge a Dio.
L’arroganza e la presunzione di essersi salvato da solo non sono un buon viatico per la salvezza. L’atteggiamento giusto è quello del pubblicano, che si ferma a distanza, sa di essere indegno, e attende di essere raggiunto dalla misericordia di Dio, consapevole che la giustificazione non può darsela da solo, con nessuna opera buona. “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
L’imperfezione, la fragilità e la condizione miserabile dell’uomo, consegnate nelle mani di Dio e riconosciute attraverso l’umile confessione delle proprie colpe, ne attirano la misericordia. La salvezza è un dono, un premio per la propria fedeltà. È perfettamente inutile rivendicare presunti meriti. La nostra preghiera deve essere lode al Signore per la vita che ogni giorno ci dà. Non dobbiamo pregare per sentirci bravi, ma perché attraverso la preghiera entriamo in relazione con Dio Padre, e anche con tutta la Chiesa “orante”, che non conosciamo, ma che forma il popolo di Dio.
Pierantonio e Davide Furfori