La difficile ricerca della pace
Cattedrale del Cairo
La cattedrale copta ortodossa di San Marco al Cairo subito dopo l’attentato dell’11 dicembre

“Ogni goccia di sangue versata dai martiri per l’Egitto è un mattone per la sua ricostruzione democratica”. Le parole di mons. Antonios Aziz Mina, vescovo copto cattolico di Guizeh, sintetizzano le reazioni seguite allo scoppio della bomba avvenuto domenica scorsa al Cairo durante la messa nella cattedrale copta di San Marco, mentre veniva distribuita la comunione, e che ha causato la morte di almeno 25 fedeli riuniti in preghiera, di cui sei bambini. Questa drammatica notizia era stata preceduta, appena il giorno prima, da quella dell’attentato nel quartiere Besiktas di Istanbul (Turchia), nel quale, a seguito di una duplice esplosione, erano morte 44 persone. Se a tutto ciò si aggiungono le notizie, purtroppo non nuove, dei bombardamenti che continuano a colpire la popolazione civile di Aleppo in Siria, il quadro della situazione nella zona sud-orientale del Mediterraneo appare a dir poco tetro. Sempre in quei giorni è stata colpita, senza fare vittime, la casa dei Gesuiti di Aleppo dove le organizzazioni umanitarie hanno predisposto rifugi per migliaia di persone prive di ogni assistenza, con bambini spesso malati a causa del freddo e della mancanza di cibo. Contro ogni invito alla pacifica convivenza, le armi continuano ad avere il sopravvento. Inutili, almeno nell’immediato, appaiono gli appelli alla cessazione degli atti di violenza. L’ultimo è rappresentato dalla lettera con la quale Papa Francesco chiede al presidente siriano Bashar al Assad di moltiplicare gli sforzi per giungere alla pace. Nell’Angelus di domenica, il vescovo di Roma ha anche espresso la sua vicinanza al patriarca Tawadros II e alla sua comunità copto ortodossa, ribadendo che l’unica risposta “è la fede in Dio e l’unità nei valori umani e civili” e della Chiesa cattolica egiziana. Diversi sono i contesti in cui questi efferati atti di violenza vengono perpetrati. Se per l’attentato del Cairo i maggiori indiziati sono i gruppi salafiti jihadisti, determinati a far cadere il presidente Abdel Fatah al-Sisi, “colpevole” di aver esautorato Mohammed Morsi, in Turchia l’attentato è stato rivendicato dal gruppo Tak, una costola dissidente del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) come atto di protesta contro il regime autoritario imposto al Paese dal presidente Recep Tayyip Erdogan. In Siria, poi, dove si può parlare di una “vera e propria” guerra, la situazione si è talmente complicata che riesce difficile risalire a colpe specifiche da addossare in toto ad una delle parti in causa: se i più concordano con la necessità del contrasto al Califfato, non poche sono le perplessità riguardo ad una “riabilitazione” di Assad. Non è la prima volta che si scrive, ma di fronte alla morte di tanti innocenti non è sbagliato ripeterlo. Manca, a livello internazionale, la volontà di affrontare in modo pacifico i tanti contrasti che accendono il mondo. Motivi più o meno nascosti portano gli stati più forti a scaricare sui molti luoghi più esposti alle logiche di guerra o del terrorismo le tensioni che non possono (non vogliono) gestire a livello diplomatico. Le difficoltà in cui versa gran parte del mondo (favorite da un’economia ormai sottratta al controllo dei governi) rappresentano un ostacolo formidabile alla ricerca di vie alternative a quelle segnate dalla violenza. La mancanza di statisti che credano i questa ricerca non fa altro che rendere ancora più critica la situazione.

Antonio Ricci