
Domenica 6 aprile – V di Quaresima
(Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11)
In almeno tre luoghi diversi (In Jo 33,5; In Ps. 50,8; Sermo 16/A,5), commentando il brano di vangelo proposto questa domenica, Sant’Agostino usa questa espressione: “Restò la grande miseria e la grande misericordia”;
Gesù non solo ha parlato di misericordia e di perdono dei peccati, ma con il suo intervento ha salvato una donna dai suoi accusatori e l’ha liberata e dai propri peccati.
1. Dicevano questo per metterlo alla prova. Il comportamento degli accusatori si verifica anche ai nostri giorni: la critica del male non ha lo scopo di ristabilire la giustizia, ma di colpire l’avversario. Tanti sono gli accusatori che puntano il dito, e anche se non chiedono la morte fisica, rovinano per sempre la reputazione di chi è preso di mira, perché nel costume corrente l’accusa rivolta a una persona equivale già a una condanna.
I farisei si appellavano alla legge di Mosè, i moralizzatori moderni fanno riferimento a una regola di buon costume, ma l’appello alla giustizia non è mai separabile dalla misericordia. La mentalità cosiddetta progressista è permissiva verso tutto, ma poi condanna inesorabilmente chi sbaglia.
2. Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra. L’affermazione di Gesù è diventata un proverbio di sapienza popolare, ma non è banale. Gesù comincia a scrivere proprio nella polvere in cui la donna era stata gettata e poi si rivolge agli accusatori: essi avevano bisogno di misericordia molto più della peccatrice. Uno alla volta se ne vanno. Come mai? Il testo non lo dice, lo lascia solo intuire.
Gli accusatori non erano interessati alla moralità della donna; erano solo ammalati di protagonismo e di risentimento contro Gesù. Però, come abitualmente accade, i moralizzatori di professione, coloro che puntano il dito contro gli altri e non contro se stessi, sono destinati al ridicolo, si scavano da soli la terra di sotto i piedi, perché trovano sempre qualcuno più giusto di loro.
Come si dice in proverbio: Robespierre “l’Incorruttibile” trova sempre qualcuno più giusto di lui.
3. Neanch’io ti condanno. Sicuramente nella mente della donna, condizionata dal suo passato e ora strattonata dai probabili amici di un tempo, non c’era un barlume di salvezza, non c’era spazio per una soluzione favorevole.
Eppure proprio nella sua miseria, quando era moralmente e materialmente nella polvere, venne per lei una parola di rinascita: “Neanch’io ti condanno, va e non peccare più”.
Alla fine restò lei sola, consapevole del suo peccato, con colui che rimetteva il peccato; nel pericolo trovò la compassione che non era solo per lei, ma anche per i suoi accusatori, se l’avessero voluta.
Anche per noi il rapporto con il Signore è sempre personale, da cuore a cuore. L’Anno Santo che stiamo celebrando potrebbe essere l’occasione per un ripensamento, per un riavvicinamento al Buon Pastore, per confessare i nostri peccati e chiedere perdono.
† Alberto