Senza entusiasmo la Lunigiana si  adeguò alle riforme di Napoleone

Il bicentenario della morte del bonaparte Furono ostili quasi tutti gli ex-feudatari, il clero e soprattutto le popolazioni in condizioni di miseria ma “attaccate al loro arcaico modo di vivere ed avverse a ogni novità”

Veduta di Pontremoli del 1801

Nel 1796-’97 calò in Italia la prima armata di Napoleone, visse alle spese del paese conquistato e saccheggiò molte opere d’arte; ne conseguì una diffusa ostilità ai francesi. I soldati occuparono anche la Lunigiana e decretarono la fine di plurisecolari sistemi politici. In Italia la cultura e gli ordinamenti complessi portati dalla rivoluzione del 1789, “evento fondatore” della democrazia moderna, erano sostenuti da pochi ed erano “patrioti passivi” – come Vincenzo Cuoco giudicò gli sconfitti protagonisti della rivoluzione a Napoli del 1799 – perché importavano dalla Francia idee e metodi disgiunti dal reale contesto.
Men che meno in Lunigiana c’era una società attrezzata mentalmente a capire fenomeni così innovativi, che in pochi anni portarono alla distruzione della sovranità del re, al “trono vuoto” (così lo storico Paolo Viola) che fu necessità chiamare “democrazia”; dalla sovranità di uno solo si passò a quella di un non ben definito popolo alla ricerca di nuove leggi.
Lo storico Giorgio Pellegrinetti scrive “Le popolazioni viventi nei feudi lunigianesi, pur in condizioni di estrema miseria, sempre in lotta con la fame, erano tuttavia attaccate al loro arcaico modo di vivere ed avverse a ogni novità”; erano quasi tutte popolazioni contadine che miravano a difendere gli usi civici, le terre comuni, i diritti acquisiti.
Forte era l’ostilità e anche l’odio verso quei pochi che avevano mostrato interesse per riforme di Napoleone come il marchese Azzo Giacinto Malaspina che sulla rocca di Mulazzo espose il tricolore della Repubblica Cisalpina (che inglobava anche la Lunigiana ex-feudale e granducale) e che coi marchesi di Tresana e Fosdinovo aveva inviato lettera a Napoleone per complimentarsi delle vittorie.
Non si conoscono veri e propri club rivoluzionari, c’erano alcuni simpatizzanti per la rivoluzione francese (che ormai aveva istituzioni moderate del Direttorio), ma erano equilibrati e lontani dagli estremismi degli anni del Terrore. Un raro evento di furore giacobino si può considerare a Pontremoli, all’arrivo del contingente francese il 2 aprile 1799, attorno all’albero della libertà eretto in piazza il raduno della gente per bruciare il libro della nobiltà locale e a sera per tutti l’ingresso libero al nobile teatro della Rosa illuminato a giorno. Già erano stati raschiati gli stemmi sulle tombe di nobili sepolti in chiese pontremolesi, come ancora si vede. Gli ex-feudatari lunigianesi, costretti a giurare fedeltà alla Francia e sottoposti a forte tassazione, tentarono di difendere per via legale i loro beni facendoli riconoscere come proprietà privata e non privilegi feudali.

Il castello Malaspina di Fosdinovo

Carlo Malaspina marchese di Fosdinovo non concesse che i soldati della Cisalpina in transito si acquartierassero nel suo castello e per qualche tempo riuscì a non “devolvere alla Nazione”quasi tutto il suo patrimonio. Molto attivo a difendere i propri reali o presunti diritti fu Tommaso Malaspina marchese di Villafranca. Rivendicava il castello e altri beni a Castevoli: aprì contesa con quella Municipalità presieduta da Domenico Genesoni, uomo di forti risoluzioni, ma entrambi persero la vertenza.
Molte requisizioni subì Claudio Malaspina del Ponte, il Comune di Licciana gli sottrasse castello, torchi, mulini della Bastia e terreni. Anche le Municipalità protestarono contro il governo della Repubblica Cisalpina per la esasperante lentezza con cui i beni feudali venivano incamerati. Gli ecclesiastici in maggioranza rimasero sospettosi verso il nuovo governo e poi ostili quando si arrivò a sopprimere conventi e confraternite, a incamerare proprietà, fu tolto ai vescovi la scelta di parroci, abolite decime e primizie, situazioni che nella Lunigiana granducale erano già state riformate da Pietro Leopoldo. L’alto numero delle parrocchie contribuì a rendere difficile l’acquisizione pubblica e la vendita dei beni religiosi, le cosiddette “manomorte” inalienabili come chiuse nella mano di un morto.
Dal punto di vista giuridico ci fu grande incertezza nello stabilire se una confraternita fosse istituto di beneficenza e quindi non sopprimibile. Ma furono soprattutto le popolazioni ad opporsi fortemente alla soppressione dei conventi e delle confraternite perchè offendeva il loro sentimento religioso e impediva le messe in suffragio; erano influenzate da larga parte dei preti, naturali avversari del nuovo regime. Urti con l’autorità civile furono forti a Tresana, Treschietto, Licciana, Villafranca, Fosdinovo. Tenaci oppositori furono il frate Bertolini del soppresso convento francescano di Villafranca, l’abate Carlo Mori di Groppoli, Antonio Valenti parroco di Vecchietto, il priore Franchi di Monti.
Furono chiusi anche i conventi dei Serviti di Licciana, dei Francescani a Castevoli, l’abbazia di San Caprasio ad Aulla e conventi femminili. Tutto sembrò tornare come prima quando la Lunigiana fu invasa dagli austro-russi della seconda coalizione che fece guerra alla Francia mentre Napoleone era bloccato in Egitto, ma presto tornarono vittoriosi i francesi e la Lunigiana di nuovo a loro sottoposta.

Maria Luisa Simoncelli