L’Italia di fronte al Fondo di Recupero

Sarà una strada difficile e tutto il Paese dovrà dare dimostrazione di serietà e impegno

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen

Sbalzato in modo abbastanza repentino dalle prime pagine di cronaca estera, il Fondo di Recupero o Recovery Fund non perde, però, la sua aura di oggetto misterioso nel dibattito interno. Misterioso perché le tante analisi della misura approvata dai capi di Stato nella notte tra il 21 e il 22 luglio stiracchiano il povero Fund in modo talmente violento da rendere davvero incomprensibile gli elementi fondanti del provvedimento. Può, quindi, non essere inutile cercare di recuperare alcuni punti fermi sui quali, poi, ognuno può esprimere opinioni anche diverse ma rispettose della realtà.
Partiamo dal fatto che, per la prima volta nella sua non lunga storia, l’Ue è giunta alla definizione di uno strumento economico-finanziario basato sulla creazione di un debito comune, del quale, cioè, rispondono tutti e 27 i Paesi membri. A dire il vero, non senza qualche mal di pancia persistente – parliamo dei Paesi “frugali” – che ha portato a ripetute revisioni delle proposte avanzate da Angela Merkel e colleghi. Le trattative sono poi giunte a un punto fermo che consiste in contributi, in parte tramite prestito agevolato e in parte a fondo perduto, erogati in proporzione alle perdite subite dai vari Paesi dell’Unione a causa dell’emergenza Covid-19. Quello che in modo abbastanza esplicito è stato battezzato “Next Generation EU”, ribadendo in tal modo che il provvedimento nasce da uno sguardo preoccupato al futuro più o meno prossimo, ha come riferimento il bilancio comunitario per gli anni dal 2021 al 2027.

Angela Merkel e Ursula von der Leyen
Angela Merkel e Ursula von der Leyen

Risulta confermato lo stanziamento di 750 miliardi di euro proposto all’inizio, ma con una diversa ripartizione: 390 miliardi saranno a fondo perduto, 360 saranno dati in prestito, sia pure a tassi molto agevolati. Guardando a casa nostra, ciò significa che all’Italia sarà destinata la parte più consistente: 209 miliardi, 82 dei quali a fondo perduto (la somma prevista in partenza era di 172 miliardi in totale).
Al di là di ogni altra considerazione, si può, quindi, capire l’esultanza del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, espressa nell’immediato, come usa oggi, con un tweet – “Deal”, accordo – e poi con un commento un po’ più articolato: “Ce l’abbiamo fatta, l’Europa è forte e unita… È un ottimo accordo, e accordo giusto… Ed è un segno concreto che l’Europa è una forza in azione”.
Tutto a posto, dunque? Possiamo già immaginarci come tanti Paperon de’ Paperoni nell’atto di fare la doccia con una pioggia di euro? La realtà è un po’ più complicata e qui si aprono le disparità di commenti. Intanto, l’accordo dei capi di Stato dovrà avere l’approvazione del Parlamento europeo attraverso il consenso di una maggioranza qualificata. Ci sono, poi, una serie di condizioni poste per garantire che i fondi erogati siano utilizzati secondo i criteri che sono alla base di tutto il meccanismo.
I vari governi dovranno redigere piani nazionali “per la ripresa e la resilienza”, indicando le riforme e gli investimenti che intendono finanziare. I finanziamenti saranno autorizzati direttamente dalla Commissione Ue purché risultino adeguati alle raccomandazioni della stessa. L’erogazione sarà rivolta a enti locali, ospedali e piccole-medie imprese, oltre che a interventi in campo ambientale. Ci saranno, poi, interventi per ricapitalizzare le imprese in difficoltà e per i nuovi investimenti, quindi, per il settore sanitario, la ricerca e la protezione civile.

Il tavolo del Consiglio Europeo
Il tavolo del Consiglio Europeo

Chi si inalbera per queste “imposizioni” farebbe bene a ripensare alla nostra poco più che settantennale storia repubblicana, caratterizzata, dopo il boom segnato dalla ricostruzione post bellica, più dai “faremo” che dai “facciamo”: qui si tratta di dimostrare che i soldi ricevuti non saranno impiegati per tappare le nostre falle economiche endemiche!
D’altronde, proprio dalla Banca d’Italia, la più autorevole istituzione economica nazionale, è giunto un monito che lascia poco spazio all’immaginazione.
Martedì 28 luglio, nel corso dell’audizione parlamentare sulla nuova richiesta di scostamento e sul Piano nazionale di riforma per il rilancio dell’Italia (Pnr), il capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, Fabrizio Balassone, ha affermato che “per il nostro Paese inizia ora un percorso tutt’altro che agevole. Andranno delineati in tempi rapidi progetti di investimento e di riforma lungimiranti, concreti e dettagliati; soprattutto tali progetti andranno attuati senza ritardi e inefficienze” e non ha esitato a dichiarare che serviranno “uno sforzo straordinario nell’attività di programmazione e una capacità di realizzazione che non sempre il Paese ha mostrato di possedere”. Ha quindi spezzato una lancia a favore dell’adesione al Mes, ricordando che lo strumento al quale si dovrebbe accedere oggi “ha una struttura completamente diversa: non ci sono condizionalità come quelle dei programmi tradizionali ma è un programma di scopo, serve per le spese sanitarie”.
Resta il fatto che difficilmente il Recovery Fund potrà andare a regime prima della prossima primavera perché ci sono diversi passaggi necessari perché questo accada. Inoltre, per i diversi motivi più volte esposti, l’Italia sarà una “sorvegliata speciale “ per verificare che le somme erogate vadano a finanziare riforme strutturali capaci di garantire il rilancio e la crescita del Paese.