
Domenica 13 gennaio, Battesimo del Signore
(Is 40,1-5.9-11; Tt 2,11-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22)
Il battesimo di Giovanni era un segno di penitenza, un gesto di umiltà profondamente simbolico. I pii ebrei che lo chiedevano si riconoscevano peccatori, attraversavano il Giordano passando sulla sponda samaritana, vi si immergevano, si impegnavano in un cammino di purificazione e rinnovamento, e rientravano nella terra promessa.
Il Battesimo cristiano è diverso: cancella il peccato originale, ci fa divenire figli di Dio e membri della Chiesa. È il primo passo della risurrezione. Oggi Cristo ha trent’anni. Più di vent’anni fa era nel tempio a parlare con gli anziani, mentre i genitori lo cercavano, sconvolti. Poi, finora, nessuna notizia. Due decenni di sparizione, per apprendere in cosa consiste l’umanità, e per insegnarci l’umiltà. Ora riappare, imprevedibile e poco rassicurante.
Gesù è il Messia, l’Unto del Signore, il Salvatore di Israele. Tutti lo vorrebbero gigante, e lui si presenta umile, si mette in fila coi peccatori, anche lui a riconoscersi tale, anche se non è vero, per condividerne l’umile appartenenza all’umanità. Si mette alla pari dei peccatori pentiti, che vogliono professare la loro volontà di conversione e di ritorno a Dio.
Questo è il suo primo atto pubblico. È un Messia al contrario, perché contraddice ogni logica umana che immagina che la venuta di Dio avvenga nello splendore, nella gloria, nella potenza. Fa la sua prima apparizione pubblica tra i peccatori e successivamente sarà chiamato amico dei peccatori, poiché vivrà tra loro, senza allontanarli.
Lo Spirito Santo non può incontrare un uomo senza che lui lo voglia. Gesù si spoglia della sua volontà e ne fa dono al Padre. Questo atto di umiltà non passa inosservato e fa scaturire un riconoscimento. “Il cielo si aprì”: dopo secoli i cieli si riaprono e riprende la comunicazione tra Dio e gli uomini.
Con la fuoriuscita dall’acqua Gesù riceve in dono lo Spirito Santo e viene dichiarato Figlio di Dio: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”. Queste parole di Dio sono anche per ciascuno di noi. Ognuno dovrebbe sperare che Dio gli possa dire: “Di te mi compiaccio” ma non riusciamo a crederlo possibile.
Queste sono le parole che Dio vorrebbe dirci, e che ci dirà, se speriamo in lui, non in noi, nella sua misericordia, non nelle nostre giustificazioni. Nessuno, d’ora innanzi, potrà più dire che il peccato ha l’ultima parola. Si può sempre rialzarsi. In tutta la sua vita, ogni attimo, Gesù chiederà allo Spirito di essere guidato. Spesso, di notte, si ritirerà in luoghi solitari e pregherà il Padre di far scendere su di Lui lo Spirito. Non ne ha bisogno, ma ci insegna uno stile.
Nella nostra società occidentale, abbiamo a disposizione tantissima libertà, ma abbiamo ancora bisogno di liberazione. Ci illudiamo di agire da persone libere, ma siamo dominati da condizionamenti esteriori ed interiori, che ci spingono a separare la libertà e la responsabilità personale.
Questa libertà apparente, smodata e irrefrenabile è illusoria e maschera spesso la schiavitù. Non si vive in libertà senza la consapevolezza di essere responsabili di ogni cosa che ci circonda. E non si è veramente liberi se si è prigionieri degli istinti e delle passioni. Gesù condivide le nostre speranze e prospettive, i nostri smarrimenti e le nostre ansie.
Pierantonio e Davide Furfori