
È perlomeno inquietante la vicenda che in questi giorni sta travolgendo Facebook. Sotto mira è la sua piattaforma Cambridge Analytica, accusata da un’inchiesta del New York Times e del Guardian di aver utilizzato le informazioni personali dei suoi utenti per manipolare le loro idee politiche. Secondo la stessa inchiesta, questa forma di manipolazione sarebbe stata utilizzata per influenzare la campagna per le elezioni americane e anche quella per il referendum britannico sulla Brexit.
Anche se, al momento, non è possibile conoscere la fondatezza delle accuse, resta il fatto che il proprietario di Facebook, Zuckerberg, chiamato a rendere conto di che cosa accada sulla “bacheca più grande del mondo”, ha deciso di bloccare l’account della piattaforma per avviare un’indagine sui fatti contestati.
Tutto ciò potrebbe essere la trama per un film ambientato nel futuro (magari con un occhio al Grande Fratello di George Orwell) ma può anche essere (e con tutta probabilità è) espressione di un qualcosa che si sta realizzando.
Gli strumenti per la raccolta e l’utilizzo dei cosiddetti big data – i dati personali che ognuno di noi “consegna” ai vari siti per poter accedere ai loro servizi – esistono da tempo, così come le regole che impongono alle società che operano in rete di rispettare quella riservatezza ormai nota con il termine di privacy. Se si mettono insieme questi due elementi, ci sarebbe piuttosto da stupirsi se qualcuno non avesse ancora pensato o messo in pratica l’elaborazione e il commercio di informazioni che valgono un tesoro.
È bene chiarire che illecito non è raccogliere quei dati ma combinarli tra loro per poi cederli a chi voglia utilizzarli per influenzare scelte e opinioni di chi li ha rilasciati, tenendo gli interessati all’oscuro di tutto. I numeri emersi dall’inchiesta, 50 milioni di cittadini inconsapevoli, potrebbero anche essere solo la punta di un iceberg capace di fare più danni di quello che affondò il Titanic.
D’altronde, è ormai risaputo che il valore dei vari social non sta tanto nella piattaforma in sé, quanto nelle montagne di informazioni sugli utenti che riescono a raccogliere.
Alzi la mano chi ha mai letto per intero le condizioni di utilizzo di questi servizi prima di cliccare su “Accetto” e se si sono lette, quante volte si sono rifiutate solo perché in tal modo si perde la proprietà intellettuale di ciò che si pubblica?
Si inseriscono in questo contesto le idee espresse da Davide Casaleggio in un articolo sul Washington Post nel quale afferma che “il Movimento è oggi la prima grande compagine politica digitale al mondo”. Sull’argomento si potrà e si dovrà tornare, ma fin da ora si può dire che prima di ipotizzare una “democrazia diretta, resa possibile dalla rete” tanto cammino deve essere fatto per chiarire i tanti lati oscuri di quel potente strumento.
Antonio Ricci