
Una chiesa poco nota che conserva storia e memorie dei primi secoli della cristianità nel perimetro dell’antica diocesi, tra Lunigiana e Garfagnana

Chi sente nominare San Terenzo Monti non può, di primo impulso, che ricordare il barbaro eccidio compiuto delle truppe tedesche il 18 agosto 1944. Tuttavia, se supera questa prima drammatica percezione, per altro ancora molto presente nei luoghi e nella memoria collettiva, riesce a guardare l’abitato con altri occhi. È arroccato su un colle nella forma compatta dell’impianto castrense ed immediatamente sotto, dal lato orientale, si trova il nodo stradale sul quale si sviluppò la sua espansione.
La chiesa è lì, all’interno della borgata sorta lungo il percorso che, se da un lato risaliva verso la fortificazione, dall’altro valicava il torrente Pesciola, collegandosi con i contrafforti occidentali dello spartiacque destro del Bardine, interessati dalle percorrenze dal comprensorio apuano ed, in particolare, dalla Garfagnana, dirette a Luni. Anzi, leggendo le carte, si può ipotizzare che San Terenzo, si trrovasse proprio sui confini delle due diocesi, in fines lunenses, che nell’Alto Medioevo parrebbe attestato sul fondovalle Bardine-Pesciola.
Di questa chiesa e della sua fondazione ci parla il documento di età longobarda, all’interno di un complesso e talvolta sfuggente canovaccio che narra di antichi legami con Lucca e la Garfagnana, mediati dai vescovi di Luni. Essi mantennero strenuamente la prerogativa del luogo, anche contro le pretese dei Malaspina che, soprattutto dopo la pace del 1306, ne divennero signori, ma che tuttavia, nel 1495, furono costretti a giurare fedeltà alla Repubblica di Firenze. Di questi fatti tracciava un’evocativa sintesi Ubaldo Formentini dopo aver analizzato la figura di San Terenzo sul quale il tempo ha depositato varie leggende.
Ma come nelle chiese barocche per ritrovare tracce più antiche e, secondo lui genuine, della loro natura originaria, bisogna raschiare l’intonaco, altrettanto bisogna fare per i personaggi. Dopo un’attenta analisi, il celebre studioso, spoglia Terenzo delle vesti scozzesi che gli sono state attribuite per ricondurlo nel filone dei primi vescovi martiri lunensi. Sarebbe stato un Terenzo di Luni, martire all’inizio del VII secolo, a dare il nome alla primitiva cappella di un villaggio arroccato tra le montagne che proteggono le spalle dell’antica città romana. La sua devozione è infatti già attestata nell’atto di fondazione, come deposito del substrato collettivo di un limitato territorio interno, solcato dai torrenti che drenano il versante nord orientale delle Apuane, a cavallo tra Serchio ed Aulella.
Anche più recenti studi lo collocano tra i vescovi Venanzio e Lucio, il primo noto per le celebri lettere di Gregorio Magno e l’altro per aver trasferito le reliquie di San Venerio dall’isola del Tino in un luogo più appartato del Golfo della Spezia. Verso un sito più protetto dal vandalismo normanno e saraceno, si diressero, verso la fine del IX secolo, anche gli indomiti giovenchi che trasportavano, secondo un modello narrativo simile a quello della leggenda del Volto Santo, le spoglie del vescovo martire.
Narra la leggenda che la montagna si aprì per raggiungere il luogo dove il longobardo Transuald nel 728-29 aveva fondato una chiesa dedicata al Santo martire Terenzo, vescovo di Luni, e che le bestie sfinite dopo essersi abbeverate ad una fonte che si trovava nei pressi morirono, indicando così che quello era proprio il luogo al quale erano destinate le sacre spoglie. Ma tali emozionanti ricordi nulla ci dicono dell’edificio; durante i restauri del secolo XVII furono ritrovate sotto l’altare di Santa Croce le reliquie del martire oggi conservate nell’altare maggiore.
Dell’epoca altomedievale rimangono soltanto alcuni frammenti murati nel paramento, opera di un rifacimento dei secoli XII-XIII, visibili sui fianchi laterali come “la capra che mangia l’erba”. L’estensione dell’intervento romanico, con l’abside rivolto ad oriente, delimita un vano rettangolare di dimensioni equivalenti all’attuale, di poco allungato tra Seicento e Settecento quando fu ridotta in volta l’antica fabbrica ed ampliato il presbiterio. Già la facciata a capanna ornata con un portale sormontato da un’edicola contenente l’immagine del patrono, la finestra superiore e l’aggraziato sagrato delimitato da balaustri in marmo, attestano il prestigio dell’edificio; un prestigio di lunga durata che si rivela puntuale negli arredi interni e nelle opere scultoree, eseguite per mano di qualificate maestranze presenti a Carrara, come Domenico Gare intorno agli anni Trenta del XVI sec.
L’interno ad aula unica, ripartito in quattro campate voltate a crociera, è commisurato da una trabeazione ionica ben proporzionata che include anche le parti ornamentali, talvolta armoniosamente ricomposte, pur essendo di gusto e di epoche diverse. Valga per tutte la scenografica rielaborazione settecentesca del presbiterio delimitata dalla balaustra in marmi policromi dall’andamento curvilineo.
Qui la prospettiva coniuga l’armoniosa curvatura del sarcofago-mensa, che contiene le reliquie di San Terenzo. È realizzata in marmo bianco ed intarsiata con festosi girali in marmi policromi, ripresi nelle tonalità degli ornati delle balze superiori dall’andamento scalare contrario appena accennato; l’ancona marmorea cinquecentesca murata sul fondo del coro forma, con il suo andamento cuspidato, il mirabile fastigio dell’altare.
Roberto Ghelfi