L’autonomia differenziata è legge: verso più ampi poteri alle regioni

Il rischio è quello di una “seccessione dei ricchi”. Le opposizioni chiederanno un referendum abrogativo della legge.
La proccupazione della Cei: no ad accentuare gli squilibri già esistenti

Un passo avanti, concreto, verso l’autonomia differenziata. È quello che ha stabilito il Parlamento: con 172 sì, 99 no e un astenuto, la Camera ha approvato in via definitiva la legge di attuazione dell’articolo 116 della Costituzione. Riformato nel 2001 assieme all’intero titolo V della Costituzione con il voto della sola maggioranza di centrosinistra che si avviava alle elezioni politiche sotto la leadership di Francesco Rutelli, il nuovo articolo 116 prevede la possibilità di attribuire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta.
La prospettiva è quella di attribuire ad esse competenze su quelle materie, indicate nel nuovo articolo 117 della Costituzione, oggetto di “legislazione concorrente” tra Stato e regioni, cioè non esclusiva competenza dello Stato o delle regioni, ma che possono essere oggetto di leggi regionali all’interno di un quadro di regole stabiliti a livello centrale.
L’attuazione di questo forme aggiuntive di autonomia sulle materie richieste dalle singole regioni (da qui il termine “autonomia differenziata”), determinerebbe l’approdo ad un federalismo di fatto, a cui il centrosinistra di inizio secolo aderì per non lasciare al leghismo delle origini le istanze autonomiste.

La Camera dei Deputati

Quella riforma, su cui il centrosinistra non ha mai fatto ammenda, ha permesso a Lombardia e Veneto, due regioni ricche e a guida leghista, ma anche dall’Emilia Romagna a guida Pd, di reclamare maggiori poteri e di arrivare a sottoscrivere intese preliminari con il governo Gentiloni, nel 2018.
Se ragioni contingenti e di opportunità politica hanno fermato il progetto emiliano-romagnolo, le giunte di Fontana e Zaia hanno continuato a fare pressioni per arrivare alla legge appena approvata.
Cosa prevede il provvedimento? Dal punto di vista procedurale, le intese tra le regioni e il governo seguiranno un iter complesso, al termine del quale le Camere dovranno esprimersi a maggioranza assoluta, approvando o respingendo (il Parlamento non potrà fare modifiche) il testo dell’intesa così com’è stato elaborato nel negoziato tra Palazzo Chigi e giunte regionali.

La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, alla Camera dei Deputati (Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

Se lo scarso potere del Parlamento è oggetto di polemica, ancor di più lo è il tema del finanziamento delle funzioni statali trasferite, che avverrà attraverso una compartecipazione a uno o più tributi erariali maturati nel territorio della Regione. Logico che regioni più ricche avranno una compartecipazione più generosa. Per non parlare di quelle regioni in cui si trova la sede legale di grandi imprese che hanno più siti produttivi distribuiti nel Paese: in tal caso si arriva addirittura ad un assorbimento improprio di risorse fiscali maturate altrove!
Ad evitare che questo meccanismo finisca per cristallizzare o accrescere le disuguaglianze esistenti dovrebbero arrivare i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale in campo sanitario, scolastico e in ogni altra materia a legislazione concorrente, così da tutelare i cittadini delle regioni che hanno una minore capacità fiscale per abitante.
I Lep dovranno essere adottati dal governo con appositi decreti legislativi nei prossimi 24 mesi. Ma è già chiaro che la loro codificazione produrrebbe un aggravio di costi, visti i diversi standard soprattutto delle prestazioni sanitarie o del diritto allo studio nelle regioni meno ricche. Non è un caso che di essi si parli sin dalla riforma costituzionale del 2001, ma senza risultati concreti.
Il rischio è che i livelli delle prestazioni vengano tarati verso il basso, suggellando in tal modo le differenze tra le regioni che già ora garantiscono prestazioni più alte e quelle che offrono prestazioni minime o con meno risorse a disposizione.
I contrari all’autonomia differenziata – le opposizioni chiederanno un referendum abrogativo – parlano di “secessione dei ricchi”: un rischio tangibile, evidenziato anche dall’assemblea dei vescovi italiani, che a fine maggio ha ribadito che “il Paese non crescerà se non insieme” e si è detta preoccupata di “qualsiasi tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori. In questo senso, il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica”.

(Davide Tondani)