Domenica 20 giugno – XII del tempo ordinario
(Gb 38,1.8-11 – 2Cor 5,14-17 – Mc 4,35-41)
Di attraversamento in attraversamento si compie la vita. Sospesi tra due rive, tra porto e approdo, si racconta la traiettoria di ogni storia. Sospesi tra la nascita e la morte: vivere è attraversare quel lago, spesso in tempesta, che chiamiamo vita. Ma non è solo immagine riassuntiva dell’intera esistenza, l’attraversamento è il movimento che racconta la nostra vocazione più profonda. L’uomo, essere vivente, è chiamato costantemente ad un attraversamento. Dal giorno alla notte, di età in età, da stagione a stagione, di respiro in respiro…ogni singolo istante contiene l’invito ad attraversare. Perché attraversare significa uscire da sé e sporgersi sul confine del mistero, oltre l’orlo misterioso del visibile, osare la strada spesso misteriosa, che si apre ad ogni passo. Parlare è attraversare, ma anche pensare, creare, cercare, sognare, costruire, amare… ogni azione profondamente umana prevede sempre lo stesso movimento: staccarsi da una certezza per approdare ad una sponda nuova, misteriosa e promettente. Noi viviamo fino a quando siamo disposti a questo continuo movimento in uscita. Movimento che prevede di perdersi per trovare e trovarsi. Staccarsi da sé per scoprirsi.
Gesù forza la partenza. La sera sta scendendo sulle vite di discepoli stanchi e lui non permette che la notte si mangi la speranza. E noi comprendiamo che l’insegnamento è profondo, che ben più di una traversata di lago notturna abbiamo descritta nel Vangelo di oggi. La notte scende, non ci sono le condizioni, la traversata sembra improbabile, persino un vento sinistro, vagamente minaccioso, si sta alzando, non ci sono le condizioni… Gesù forza il tempo, forza il cuore dei discepoli: arrendersi alla notte, rimanere senza esporsi, stare aggrappati a ciò che dona sicurezza è già morire. E che non ci siano le condizioni ideali è il Vangelo stesso a ricordarlo: presero (Gesù) con sé, così com’era, nella barca. Vince l’urgenza, l’impossibilità di fare altrimenti. Occorre partire. E io sento che dentro queste righe c’è tutta la consolazione per le nostre vite imperfette, colte sempre di sorpresa, impaurite. Vite che rischiano di farsi masticare dalla notte solo perché attendono i tempi perfetti. Che non esistono. Elogio della partenza, dell’uscita, del cammino, elogio di iniziare con quel che si è e dove si è. Con la fede così com’è, con quella mediocrità che ci appartiene, con tutte le paure e le inadeguatezze. Ma salpare. Non arrendersi all’immobilità. Non arrendersi alla notte. Mi pare che il miracolo inizi da qui. Dalla decisione di salpare, comunque. Di vivere, di andare incontro all’altro, comunque. Di sognare un mondo più evangelico anche se il mondo sembra andare da un’altra parte. Di ricominciare a credere nell’uomo nonostante le nostre piccolezze, le nostre ingenuità, i nostri peccati. Salpare e cercare nuovi approdi anche se la fantasia sembra sempre più rara, anche se non abbiamo coraggio e creatività. Salpare e andare anche se abbiamo sbagliato già tante volte e tante volte ci siamo illusi che fosse l’ultima. Salpare, andare, tirando insieme i cocci di ciò che siamo, e dei sogni infranti. Andare, così come siamo.
don Alessandro Deho’