Il ritorno alle celebrazioni pasquali dopo un anno di blocco ripropone annose e ineludibili criticità
La comunità cristiana che è in Italia è tornata a celebrare i riti della Settimana Santa e di Pasqua dopo la traumatica interruzione dello scorso anno, quando un’inedita situazione epidemiologica e gli scarsi mezzi per circoscriverla imposero il blocco di tutte le attività di socialità e un digiuno eucaristico lungo quasi tre mesi che non trovò tutti d’accordo, all’interno della comunità ecclesiale.
Certo, aveva ragione Alberto Melloni nel dichiarare a inizio pandemia che “una comunità che prega non è una folla”. Lo hanno dimostrato, alla ripresa delle liturgie in presenza, il rispetto dei rigidi protocolli concordati con le autorità sanitarie e le cautele aggiuntive che in molte chiese sono state adottate: di fatto, non si sono avute notizie di contagi determinatisi dalla partecipazione alle messe.
Questo non significa che si debba abbassare la guardia, o pretendere, come vorrebbero alcuni, un rientro alla piena normalità. La situazione è ancora pericolosissima, e non stupisce il fatto che, sempre nella comunità ecclesiale ci siano opinioni anche di tenore opposto, come quella di Luigino Bruni, firma di primo piano di Avvenire, che di recente ha dichiarato di non capire perché si continui a celebrare messe nelle zone rosse, con migliaia di nuovi casi al giorno, con luoghi di aggregazione come scuole, teatri e concerti chiusi, ed evidenziando l’opportunità per la Chiesa di offrire un importante segnale civile sospendendo le messe in questi mesi difficili.
Sul tema, il dibattito non solo è aperto (a parte chi sostiene che l’Eucaristia è il vero vaccino contro il Covid…), ma è pure necessario, perché i mesi del digiuno eucaristico – lo hanno fatto notare in molti tra preti, teologi, operatori pastorali – hanno mostrato il rischio che l’Eucaristia, da fonte e culmine della vita della Chiesa, diventi un fine.
La testimonianza più eloquente è l’inflazione di messe trasmesse sui social network durante il lockdown, come se un’Eucaristia virtuale, trasmessa anche con mezzi di scarsa qualità e quindi poco adatti all’importanza del rito, completasse la missione della Chiesa. Il paventato Sinodo della Chiesa italiana – nonostante il silenzio con il quale è stato per ora accantonato dalla comunità ecclesiale nazionale – dovrà necessariamente parlare anche di questo.
Ma il ritorno alla celebrazione della Pasqua – gioioso, pur nella consapevolezza di una situazione sanitaria sempre preoccupante – apre altre riflessioni anche per la Chiesa locale.
La prima riguarda, nel periodo liturgico più intenso dell’anno, la capacità dei preti di celebrare i riti della Settimana Santa in maniera capillare su tutto il territorio. Si tratta di una criticità ben nota da tempo, ma che nel corso degli anni si è ampliata in modo preoccupante, tra invecchiamento e riduzione numerica dei preti.
Quante saranno le parrocchie della diocesi apuana – non importa se svuotate dallo spopolamento – in cui quest’anno non risuonerà l’Alleluia! pasquale? E in quanti centri, invece, vi saranno più celebrazioni in contemporanea che – quando il distanziamento sarà un ricordo – potrebbero essere accorpate?
Molte diocesi stanno affrontando il problema in modo strutturale, con l’istituzione delle unità pastorali, una scelta che potrebbe essere non compresa e non accettata se non si trasmette ai fedeli il messaggio che il nuovo assetto è la via per portare l’Annuncio del Vangelo in un contesto del tutto nuovo della storia della Chiesa e non la strada per chiudere parrocchie per carenza/assenza di clero, obbligando le persone a convergere su altre chiese.
Proprio per questo, il processo di istituzione delle unità pastorali deve essere definito, nella nostra diocesi come altrove, non da pochi “addetti ai lavori”, ma nell’ambito di un percorso che coinvolga la Chiesa in tutte le sue dimensioni e che valorizzi il tema della corresponsabilità nella comunità cristiana; un percorso, in una parola, sinodale.
(Davide Tondani)