
“Next generation EU”: le tensioni politiche fanno perdere di vista il reale obiettivo del programma europeo

Agire nella prospettiva “non solo di riparare e recuperare l’esistente, ma di plasmare un modo migliore di vivere il mondo di domani”: Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea ha usato queste parole per indirizzare il piano da 750 miliardi compreso nel prossimo bilancio Ue 2021-2026. Non solo soldi per tamponare la crisi, quindi, ma per cominciare a costruire un’Europa verde e socialmente equa da consegnare alle generazioni future.
Non a caso chiamato “next generation EU” – l’Unione Europea della prossima generazione – questo progetto, che segna la fine di oltre un decennio di rigore finanziario, rappresenta una nuova idea di Europa, partorita anche grazie ad un inaspettato successo diplomatico del governo italiano. Il nostro Paese sarà anche il maggiore beneficiario del piano.

Dei 750 miliardi che l’Unione Europea reperirà emettendo per la prima volta titoli del debito pubblico europei – un’idea considerata solo un anno fa alla stregua di un’eresia – all’Italia ne spetteranno ben 193: sovvenzioni a fondo perduto per 65,4 miliardi di euro e 127,6 miliardi di euro di prestiti. A questi se ne aggiungeranno altri 16 provenienti da programmi minori, portando la quota a 209. Le somme prese a prestito dovranno essere rimborsate tra il 2027 e il 2058, un orizzonte che spiega il richiamo alle generazioni future presente nel nome del programma: sono queste che dovranno rimborsare i debiti contratti oggi ed è per questo che le risorse dovranno essere spese non per ottenere ritorni immediati ma per garantire qualità della vita agli europei di domani.
Ma l’Italia sta progettando il suo piano adottando questo sguardo rivolto al lungo periodo e ad un modo di vivere migliore per le generazioni future? Diversi elementi lo fanno dubitare e lasciano pensare che la tentazione sia quella di replicare la cattiva storia di quando l’Italia ha accumulato un debito pubblico di proporzioni quasi uniche al mondo per finanziare in gran parte spesa corrente, lasciando alle generazioni future l’onere di saldare i debiti.
Tralasciando il muoversi scomposto della dirigenza di Confindustria, che fin da quando il piano europeo è stato partorito, ha chiesto con insistenza e talvolta con arroganza che le risorse fossero destinate ai desiderata delle imprese, è dal mondo della politica che vengono i maggiori indizi di come un atteggiamento rivolto al domani faccia fatica a farsi largo. Intanto c’è una questione lessicale non trascurabile: la politica italiana si ostina a chiamare il piano in questione “recovery plan”, cioè piano di recupero e non “prossima generazione”.
Come dire: le risorse vanno spese per recuperare quanto distrutto dalla pandemia, mettendo in secondo piano il futuro, l’opportunità di cambiamento, la resilienza, parole che pure compaiono nei titoli dei documenti del governo. Ma la questione da lessicale si fa politica se si osserva come si muovono le forze nello scacchiere parlamentare.
L’opposizione sovranista ha chiesto di spendere le risorse europee nel contesto di una riforma fiscale che riduca le imposte immediatamente. Dentro al governo c’è chi, come Renzi, ha usato le bozze del Piano come clava per contare di più e contrattare ruoli, poltrone e fondi in una logica biecamente spartitoria. Movimento 5 Stelle e Partito democratico hanno dato l’impressione di non essere capaci o di non voler difendere il governo dagli attacchi di Italia Viva. E così, il piano italiano rischia di diventare una super-finanziaria varata per saziare gli appetiti di tutti, senza un reale sguardo al futuro.
Eppure, sfogliando le bozze del Piano, pare che il governo Conte abbia consapevolezza dei mali endemici dell’Italia su cui agire: la ridotta dimensione media delle imprese, l’insufficiente competitività del sistema-Paese, una incompleta transizione verso un’economia basata sulla conoscenza, l’ampliarsi delle disparità di reddito, genere e territoriali a partire dalla crisi globale del 2008, il crollo degli investimenti pubblici. Mentre il settimanale va in stampa il governo farà conoscere gli ultimi ritocchi al piano di spesa che l’Italia presenterà a Bruxelles.
Ci sarà tempo per commentare quelle cifre. Ma intanto si fanno largo altri dubbi: una Pubblica Amministrazione su cui negli ultimi 20 anni non è stato fatto alcun investimento in termini di capitale umano, né qualitativo né quantitativo, eccessivamente burocratizzata e lenta, riuscirà davvero a spendere, come promette il governo, 60 miliardi tra 2021 e 2022, individuando obiettivi, espletando bandi e appalti, controllando stati di avanzamento e rendicontando alla Commissione Europea, che solo allora pagherà? Il governo, per scansare questi problemi ha pensato a commissari con poteri speciali: una soluzione che, come mostra l’esperienza della pandemia in corso, non dà in modo automatico i risultati sperati.
(Davide Tondani)