Noè, la vita e l’arte della cura

Domenica 1 dicembre. I di Avvento
(Is 2,1-5; Rm 13,11-14; Mt 24,37-44)

45vangeloPoi Noè entra nell’arca. E quello fu il momento di una soglia oltrepassata, di una nuova piega degli eventi, gesto probabilmente nascosto ai più ma che tracciò, sulla crosta di un mondo ancora caldo di creazione, una linea definitiva. Noè, con una manciata di semi umani e animali, dentro il guscio dell’arca.
Fuori: l’umanità intera, colpevole. Colpevole di non essersi accorta di nulla. Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito con l’unica minima radicale diversità dell’inconsapevolezza. Quella che per noi è diventata addirittura una scusante (non mi sono accorto…) per Gesù è mancanza grave rispetto all’arte di vivere che è venuto a cantare.
Perché chi ama si vuole immergere nella vita, la desidera, la beve, la mangia, carne e sangue, eucaristica passione. Gesù è l’Amore che si risveglia dentro ogni singolo istante. Gesù è l’appello instancabile a vivere da innamorati, e forse aver fede non è altro che essere perdutamente innamorati della Vita. La prima domenica di Avvento è un invito ad aprire gli occhi sul cuore caldo degli eventi, su questa Creazione che implora un nostro gesto di cura.
Come ai tempi di Noè, come ai nostri tempi, la vita chiede l’arte della cura, anche Natale sarà questo, un bambino che divinamente si affida alle cure di un ragazzo e di una ragazza sorpresi da una vita inattesa e promettente. La prima domenica di Avvento è la buona notizia: ogni uomo, ognuno di noi, ha la fiducia del Creatore, il Signore si fida di noi, si affida a noi, Dio crede nella sua umanità, che sarà fragile e affaticata, che spesso tradisce e delude ma che, quando decide di chinarsi poeticamente sul mondo per custodirlo, diventa immagine e somiglianza del Dio Creatore, del Dio che crea e ricrea nell’amore.
Avere cura di un pezzo di Creazione è continuare a interrogarsi sul senso della vita. Due uomini e due donne nella pagina di vangelo di oggi subiscono giudizi opposti (uno verrà portato via e l’altro lasciato) eppure stavano compiendo gli stessi gesti nel medesimo momento, a determinare il trattamento diverso è la diversa consapevolezza.
Per chi lavoro nel campo? Per chi macino vita buona? Senza questa consapevolezza la vita, semplicemente, travolge. Entrare nell’arca mi sembra il gesto che questo Avvento può consegnarci come inizio del cammino. Entrare nell’arca non significa uscire dal mondo ma rientrare in noi stessi, mettersi in salvo dalla banalità che goccia dopo goccia rischia di annientare il profilo della creazione.
Rientrare in noi stessi per sentire che l’unica cosa che stiamo cercando è qualcuno che si prenda cura di noi, a salvarci sarà solo e sempre l’arte della cura, e per questo cerchiamo ancora Gesù, l’incarnato in ogni bacio chinato sulle nostre ferite.

don Alessandro Deho’