
In un’area che conta già un milione di rifugiati, secondo l’Onu il numero degli sfollati potrebbe aumentare di altre 450mila persone. La testimonianza di due sacerdoti dalle zone di guerra dove i cristiani hanno scelto di restare
È difficile capire dove sta andando la storia se si vive nel momento in cui certi fatti avvengono: ci sono innumerevoli esempi che possono confermare questa tesi ed uno lo abbiamo proprio di fronte a noi; tra mercoledì 9 e giovedì 10 ottobre Erdogan ha reso concrete le minacce delle ultime settimane dando il via all’operazione militare “Fonte di pace” e lanciando il suo esercito contro i combattenti curdi nel nord-est della Siria.
Un’offensiva, quella lanciata dalle Forze armate turche, resa più facile dalla decisione del presidente statunitense Donald Trump di ritirare i soldati americani presenti nella zona. Lo scopo dichiarato dell’operazione è quello di allontanare dal confine le unità combattenti di protezione popolare curde, considerate da Erdogan un gruppo terroristico, creando in tal modo nel nordest della Siria una zona di protezione per lo stato turco.
Come si lasciava intendere, le guerre si sa come iniziano ma non come evolvono. Che il Medioriente e le zone limitrofe siano una polveriera a cielo aperto non è cosa di oggi. Pensare di lanciare un’azione militare in teoria limitata sperando che questa non possa degenerare in qualcosa di più ampio e grave potrebbe essere, a seconda del grado di onestà di chi lo pensa, un atto di ingenuità o di incoscienza.
Sia pure in grave ritardo – perché è da tempo che le diplomazie sono balbettanti su certi argomenti – Unione europea e Onu hanno iniziato a muoversi per cercare di far ragionare Erdogan, per ora con risultati a dir poco deludenti. I ministri degli esteri, riuniti a Lussemburgo, hanno chiesto la cessazione immediata delle azioni militari nel nord della Siria, proponendo la ricerca di una soluzione politica al conflitto e minacciando l’embargo di armi se ciò non avvenisse. Da parte sua, il Consiglio Ue “esorta nuovamente la Turchia a cessare la sua azione militare unilaterale” e condanna l’iniziativa “che mina gravemente la stabilità e la sicurezza dell’intera regione”.
Parole chiare, ma che per ottenere una risposta positiva da parte di Erdogan avrebbero bisogno di una unità di intenti che fino ad oggi non si è mai riscontrata.
Parole accorate sono state espresse anche dal Papa all’Angelus di domenica scorsa: “Il mio pensiero va ancora una volta al Medio Oriente… In particolare, all’amata e martoriata Siria, da dove giungono nuovamente notizie drammatiche sulla sorte delle popolazioni del nord-est del Paese, costrette ad abbandonare le proprie case a causa delle azioni militari: tra queste popolazioni vi sono anche molte famiglie cristiane. A tutti gli attori coinvolti e anche alla comunità internazionale; per favore, rinnovo l’appello ad impegnarsi con sincerità, con onestà e trasparenza sulla strada del dialogo per cercare soluzioni efficaci”.
Ancora una volta, si trovano coinvolti in una situazione di violenza i cristiani che abitano in quelle zone.
In una intervista ad Agenzia Sir, padre Nareg Naamo, rettore del Pontificio Collegio armeno di Roma e originario di Qamishli, la città siriana al confine con la Turchia dove sono in corso gli scontri, afferma che le parole del Papa danno grande conforto a quelle popolazioni. Il desiderio di tornare alla normalità è testimoniato dal fatto che sia “le scuole pubbliche sia le private come quelle cristiane a Qamishli hanno ripreso le lezioni. Vogliamo la pace e le parole del Papa ci donano tanto conforto e non ci fanno sentire abbandonati”, sottolinea padre Naamo, rivendicando con orgoglio la presenza cristiana anche lungo questo confine martellato da bombe e razzi.
Il parroco della comunità armeno-cattolica locale, padre Antonio Ayvazian, ricorda da Qamishli che nella terra di san Paolo la speranza non viene mai meno. “Nei giorni scorsi, dichiara, abbiamo subito scambi di artiglieria tra i curdi che hanno colpito villaggi oltre il confine e le forze dell’esercito turco che hanno risposto provocando la morte di una famiglia cristiana di rito siriaco-ortodosso, madre e tre figli. In città la situazione è di calma apparente ma c’è una emergenza umanitaria cui bisogna fare fronte”.
“Al momento, dice padre Antonio, si stima in almeno 130mila il numero di sfollati dal confine”. Secondo l’Onu il numero degli sfollati potrebbe aumentare sino a 450mila persone. Tutto questo in un Paese che già conta oltre 11 milioni tra sfollati interni e rifugiati e altri 11 milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria, di cui oltre 1 milione nell’area nord orientale colpita da questa nuova crisi.
(a.r.)