Piemontese, liberale, docente universitario, nell’immediato dopoguerra fu prima govenatore della Banca d’Italia, poi ministro delle Finanze del quarto governo De Gasperi. Salvò l’Italia dalla deflazione
Settanta anni fa di questi giorni (11 maggio 1948) veniva eletto dalle due Camere del Parlamento Presidente della nuova repubblica italiana Luigi Einaudi (Carrù 1874 – Roma 1961) con mandato di sette anni. Era un liberale di schietta militanza ed un economista di valore, con esperienza teorica e pratica in materia finanziaria: nel 1907 era diventato docente di scienza delle finanze all’Università di Torino, poi passò alla Bocconi di Milano. Antifascista senza ambiguità riparò in Svizzera per sottrarsi alla Repubblica di Salò. A guerra finita, fu scelto per governare la Banca d’Italia, poi ministro delle finanze nel IV governo De Gasperi; seppe arrestare la spaventosa inflazione postbellica con una politica monetaria del rigore, eliminò sovvenzioni governative, ridusse drasticamente la quantità di moneta in circolazione congelando del 25% i depositi bancari e restrinse il credito con immediato risultato positivo e diede spazio alla libera iniziativa dell’industria privata per affrontare i grossi problemi della ricostruzione.
La situazione italiana era complicata e forti erano le tensioni internazionali: il blocco di Berlino avrebbe potuto far diventare “calda” una ormai consolidata guerra “fredda” tra il blocco occidentale e quello sovietico. Nel 1948 Einaudi si trovò di fronte la crisi di Praga con l’uccisione di Jan Masaryk e la presa del potere da parte dei comunisti.
Il 14 luglio l’attentato a Togliatti scatenò una minacciosa protesta che avrebbe potuto diventare rivoluzione (si contarono 13 morti e scioperi, si ruppe l’unità dei tre sindacati confederali), frenata dall’invito alla calma dello stesso segretario generale del PCI dal letto d’ospedale, che assicurò che l’Italia non sarebbe diventata una repubblica sovietica perché così avevano deciso Stalin, Roosevelt e Churchill nella conferenza di Yalta del febbraio 1945 spartendo l’Europa in due blocchi; quello atlantico si unì nel trattato Nato a cui l’Italia aderì il 4 aprile 1949.
Il presidente Einaudi fu forte sostenitore della riforma agraria del 1950. Era un liberale, dunque un borghese ma di quelli che puntano a far progredire l’industria e diceva borghesi anche gli operai che lottano per avere “una parte di questo maggior prodotto”e considera nazione “quella che lavora, pensa, produce” e non quella “che ha qualcosa da chiedere allo Stato”.
La sua bibliografia è imponente, una delle opere più note sono le “Prediche inutili”, concepita nel primo dopoguerra; tra il pessimista e l’ironico Einaudi tornò nel 1956 a predicare in sei fascicoli lucidi pensieri, forse Inutili perché non presi in considerazione, ma di sostanza. Eccone alcuni, con disputa anche sulle idee del liberale Benedetto Croce: conoscere per deliberare, senza frettolose decisioni prese in emergenza e far seguire l’azione dopo aver valutato l’applicabilità seria, evitare sotterfugi e il groviglio inestricabile di procedure. Bisogna saper cercare le soluzioni con i tecnici ma anche con teorici che sappiano vedere il filo conduttore adatto a scoprire il vero problema da risolvere e abbiano conoscenza critica del passato per evitare proposte sbagliate.
Einaudi ritiene i socialisti distinti ma non distanti dai liberali, sono avversari da combattere i conservatori, gli integralisti. La libertà vuole dialogo, rispetto della persona umana, ricerca di ciò che unisce. Il pensiero liberale nel dibattito economico ancora oggi ritiene che la produzione della ricchezza sia la precondizione per dare più uguaglianza dei punti di partenza agli individui e non la distribuzione della ricchezza come sostiene il socialismo. Non un liberalismo selvaggio con assenza dello Stato, che però non sia proprietario e gestore unico dei mezzi di produzione, che non abbassi tutti a livello comune, ma elevi i minori a livelli sempre più alti.
Maria Luisa Simoncelli