Austerità, finanza e difesa: i pilastri della integrazione europea dei prossimi anni

Tra un mese le elezioni europee. Fuori dal dibattito interno sulle candidature o sugli equilibri politici nazionali si delineano le forme dell’Europa del futuro: meno politiche sociali, più mercato

“Meno Europa, più Italia” è lo slogan della campagna elettorale di Matteo Salvini in vista delle elezioni dell’8 e 9 giugno: uno slogan che dipinge “un mondo al contrario”, per usare il titolo del libro autoprodotto dal più noto candidato a Bruxelles e Strasburgo della scuderia salviniana. Sì, un mondo al contrario perché, a prescindere dal volto sorridente del leader leghista sui manifesti, le prossime elezioni si avvicinano contrassegnate, al contrario, da “più Europa, meno Italia”, tanto sarà l’impatto sul nostro Paese e sull’intera UE del nuovo Patto di Stabilità e crescita riformato con il definitivo voto dell’Europarlamento la settimana scorsa. Sospeso durante il periodo del Covid, il Patto che vincola i bilanci degli Stati membri è ancora una volta improntato all’austerità più ideologica. Il dogma è ancora una volta la riduzione dei disavanzi eccessivi e del debito pubblico, qualsiasi sia il contesto socio economico, e nonostante un quindicennio di crescente rigore non abbia portato né stabilità né crescita, ma abbia rafforzato i populismi nazionalisti e la disaffezione per il progetto di integrazione europea.

L’aula del Parlamento Europeo: la composizione sarà rinnovata con il voto di giugno

Con il nuovo patto i Paesi con un debito eccessivo saranno tenuti a ridurlo in media dell’1% all’anno se il loro debito è superiore al 90% del Pil, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%. Se il disavanzo di un paese è superiore al 3% del Pil, dovrebbe essere ridotto durante i periodi di crescita per raggiungere l’1,5% e creare una riserva di spesa per periodo con condizioni economiche difficili. Fuori dai tecnicismi, con queste regole il prossimo 19 giugno l’Italia potrebbe essere sottoposta ad una procedura per deficit eccessivo e guidata a trovare entro l’estate 12 miliardi di euro tra tagli di spesa e nuove entrate. Medicina amara da far digerire ai cittadini italiani, tant’è che il provvedimento è passato all’Europarlamento con la singolare astensione del Pd sul testo difeso dal Commissario Ue agli Affari Economici Paolo Gentiloni e dei partiti di governo a dispetto del voto favorevole all’Ecofin del Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Medicina amara anche per tutti gli altri cittadini europei, a volerla dire tutta, con un’Unione su cui aleggia lo spettro di una nuova recessione, ma fermamente convinta delle proprie posizioni tecnocratiche. Ne sono testimonianza, nelle ultime settimane, le anticipazioni dei due rapporti predisposti per conto della Commissione Europea da Mario Draghi ed Enrico Letta. Anche Draghi, anticipando ad una conferenza in Belgio la propria relazione sulla competitività dell’Unione, ha dipinto un’economia impostata sul “più Europa, meno stati nazionali” e fondata su un aumento degli investimenti privati, favorito da un mercato interno dei capitali ancora più liberalizzato, più investimenti in difesa, un maggior ruolo pubblico nell’approvvigionamento delle materie prime (in quali forme? Si spera non in quelle di un neocolonialismo continentale).

Una assemplea plenaria del Parlamento Europeo (foto SIR/Marco Calvarese)

Non più tardi di 25 anni fa si riteneva – era la cosiddetta “Strategia di Lisbona” – che il volano più efficace di competitività europea fosse il suo modello sociale fatto di welfare e inclusione sociale. Di questi temi Draghi non ha parlato, evidentemente ritenendoli inefficaci e superati, ottenendo tuttavia applausi trasversali (anche quello di Orban) e l’investitura dei principali quotidiani italiani, sempre entusiasti dell’ex banchiere centrale, a futuro presidente della Commissione Europea. Se davvero accadesse, sarebbe il primo presidente dell’esecutivo comunitario a non essere mai passato per una prova del voto popolare. Sulla stessa lunghezza d’onda il piano commissionato a Enrico Letta per il mercato europeo. L’ex Presidente del consiglio ha parlato del ruolo del mercato dei capitali per finanziare la transizione ecologica e più investimenti nell’industria militare, troppo dipendente dall’estero. Nessun accenno ai temi sociali, alle disuguaglianze prodotte dal mercato o al mondo del lavoro: è la rinuncia a qualsiasi prospettiva diversa dall’idea di generare ricchezza di carta, fino allo scoppio della prossima bolla finanziaria A poche settimane dal voto è arrivato anche il via libera ufficiale alla riforma del Regolamento di Dublino sull’immigrazione. Il nuovo patto prevede norme sull’accoglienza più severe, soprattutto per le persone migranti che arrivano dai paesi considerati – con ampi e controversi margini di discrezionalità per i Paesi europei – “non a rischio” di guerre o calamità e percorsi di espulsione più veloci. La riforma prevede anche il meccanismo della solidarietà “obbligatoria” fra i paesi di arrivo e i paesi interni dell’Unione. In alcuni particolari casi questi ultimi potranno versare 20mila euro per ogni richiedente che si rifiutano di accogliere in un fondo comune dell’Unione Europea. In un’Europa in cui tutto è mercato, anche l’umanità e la solidarietà possono essere merce di scambio.

(Davide Tondani)