Ravenna non scorda “l’ora che volge il disio…”

700° anniversario della morte del Sommo Poeta. Nei pressi della tomba di Dante, terminata nel 1782, ogni sera la lettura di un Canto e i rintocchi della campana dell’amicizia con Firenze

Parlando di Dante Alighieri, a 700 anni dalla morte, vogliamo, questa volta, partire da Ravenna. Una città ricca di storia, di arte e di cultura tanto che, sotto i Bizantini, raggiunse il massimo splendore superando Roma in magnificenza e in bellezza.
Qui si trova la tomba del Sommo Poeta, nell’omonima via. Non è cosa eccezionale, anzi trattasi di una costruzione dall’aspetto modesto, ma di altissima importanza spirituale. Il sepolcro, in stile neoclassico, “coronato” da una piccola cupola, eretto presso la basilica di San Francesco, accoglie le sue spoglie, in quanto Dante visse esule anche a Ravenna, verso il 1316, ospitato da Guido Novello da Polenta, di cui godette la più alta stima. In questa città terminò la Divina Commedia e qui morì la notte del 13 settembre del 1321.
Oggi la sua tomba è monumento nazionale ed, attorno ad essa, è stata istituita una zona di rispetto e di silenzio chiamata “zona dantesca”. All’interno dell’area sono compresi la Tomba del Poeta, il giardino con il Quadrarco ed i chiostri francescani che ospitano il Museo dantesco. Costruita nel biennio 1780 – 1782, dall’architetto Camillo Morigia, su commissione del cardinale Luigi Valenti Gonzaga, sull’architrave porta la scritta “Dantis Poetae Sepulcrum”.

Dante tomb in Ravenna

La tomba vera e propria, rivestita di marmi e stucchi, consiste in un sarcofago di età romana con sopra scolpito, sempre in latino, l’epitaffio in versi dettato da Bernardo Canaccio, nel 1366, che termina “ma giacché la mia anima andò ospite in luoghi migliori e più beata raggiunse fra gli astri il suo Creatore, qui son racchiuso io, Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, patria di poco amore”. Sul soffitto arde una lampada votiva settecentesca alimentata da olio di colli toscani offerto, ogni anno, nella seconda domenica di settembre, da Firenze.
Quest’anno, in occasione di una data tanto importante, ogni sera, nei pressi della tomba, 13 rintocchi precedono e seguono la lettura di un Canto della Divina Commedia. La campana che chiama a raccolta i cittadini è la campana dei Comuni d’Italia che sormonta il mausoleo. Progettata da Guido Biagi e decorata con gli stemmi municipali di Firenze, Roma e Ravenna, onde suggellare l’unità civile, dopo la Grande Guerra.
Sulla campana sono incise le terzine famosissime del Purgatorio ( VIII, 1 – 6) in cui Dante parla di una squilla che suona quando muore il giorno “Era già l’ora che volge il disìo/ ai naviganti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio; // e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano/ che paia il giorno pianger che si more…”.
Un’ora serale intrisa di pacata nostalgia in cui, nei pellegrini e negli esuli incolpevoli come Dante, l’eco dei rintocchi risveglia incancellabili ricordi che suscitano pungenti emozioni. Il Comune di Ravenna ha chiamato l’importante Progetto della lettura della Divina Commedia col titolo “L’ora che volge il desìo”. In tempo di restrizioni, causa pandemia, il sindaco Michele de Pascale vuole che la lettura dei versi continui come omaggio al Poeta che il mondo ci invidia e a tutti coloro che lo amano. Chiunque può partecipare mediante i linguaggi multimediali su “vivadante.it”.
A questo punto ci sia consentita una modestissima riflessione sulla Divina Commedia. Essa rappresenta il simbolico viaggio che l’umanità deve compiere per rinnovarsi moralmente, per poter raggiungere lo stato di perfezione. Nell’Inferno, il Poeta condanna quei vizi da cui l’umanità è afflitta e che impediscono l’edificazione dell’ordine che egli auspica. Nel Paradiso rappresenta l’ideale regno in cui non solo sono premiati quelli che, alla luce della sua poetica, sono i buoni e i giusti, ma è trascritto e trasfigurato il suo desiderio di pace, di uomo vinto nelle lotte di questa aiuola “che ci fa tanto feroci”.
Così la Divina Commedia, che nasce come speranza in un ordine ideale abbozzato dalla civiltà comunale – cristiana, consacra l’immagine di un uomo che mediante l’azione attinge, nella civiltà terrena, la perfezione, quindi la felicità. Dopo Dante la nostra letteratura, in generale, rinuncia alla lotta, non reca più tale impronta di fede in un ordine universale, ma riflette lo spegnersi di una speranza collettiva, popolare, o si fa specchio della vita individuale, di un’inquietudine interiore oppure vagheggia un astratto mondo perfetto, aldilà della storia. La coscienza della decadenza e il sogno del rinnovamento sono, per Dante, la ragione del Poema. Anche Petrarca polemizza contro la corte avignonese, ma la sua critica, per quanto aspra, non diviene la ragione delle sue opere.
Il Cristianesimo di Dante non è un fatto individuale, come quello del Petrarca, ma un fatto sociale come strumento di rinnovamento della società intera, non come mezzo di individuale ascesi. Ultima voce di quel Cristianesimo che coincideva con le aspirazioni storiche più vive della primitiva società comunale. É di codesto spirito, che si alimenta senza tramontare, la poesia dantesca.

Ivana Fornesi