
Un episodio di “normale” solidarietà e di condivisione dei valori della Resistenza
Quest’anno la celebrazione casalinga della Festa di Liberazione ha richiamato la memoria di fatti ed episodi di solidarietà normale tra gli abitanti, sfollati e residenti, nel piccolo paese di San Cristoforo.
Era il 1944 e tutti gli uomini presenti erano ritenuti “disertori o renitenti” e per loro era prevista la pena di morte. La tutela della propria sopravvivenza aveva indotto a scavare nella collina terrazzata adiacente il cimitero della piccola comunità nella valle del Gordana due buche: una di dimensioni ridotte destinata a nascondere i maiali, l’altra più ampia quale rifugio per gli uomini; le buche erano ricoperte da un tavolato con sopra terra lavorata come nei campi vicini ed erano accessibili con la rimozione dei sassi del muro a secco.
All’epoca S. Cristoforo era collegato a Pontremoli dalla strada costruita anni prima dall’Italcementi per il trasporto della pietra calcarea; la strada andava sorvegliata perché era l’invito per pattuglie di polizia o di tedeschi a salire fino al paese per controllare la presenza di disertori e di renitenti.
Anche perché nella cantina di una famiglia del paese, legata da vincoli di stretta parentela con un partigiano di Zeri, il cugino Vittorio, erano nascoste armi e munizioni protette da un soppalco che portava in superficie damigiane di vino con accanto mele e pere messe a maturare in abbondante paglia.
Inoltre la domenica a celebrare la Messa arrivava da Cavezzana Gordana don Giulio Podestà, di solito accompagnato da un forestiero ricercato dall’Ovra, la polizia segreta fascista. Questi una domenica rimproverò un chierichetto che non stava fermo durante la predica, con la strana espressione “oh, chetati bimbetto!”
Paesani e sfollati conoscevano tutte le fragilità che, se scoperte, avrebbero fatto di S. Cristoforo un facile bersaglio della repressione nazifascista. Ma tutti avevano contezza che non andava persa l’opportunità di uscire dal regime di violenza e di poter respirare aria di libertà nel pensiero, nella parola e nell’azione.
In un pomeriggio della tarda estate del 1944 la sentinella sulla strada segnalava l’avvicinarsi di truppe tedesche. Immediatamente venivano portati i maiali nella buca e gli uomini si rinchiudevano nella buca-rifugio. Di lì a poco giungevano in paese tre carri coperti con militari tedeschi a cavallo: intimidite e messe al muro le donne con i bambini, i tedeschi con minacce di fucilazione, caput, facevano capire che volevano sapere dove si nascondevano i banditen, partigiani, disertori e renitenti, e dove era il fieno per i cavalli.
Per quanto impaurite le donne non fecero né un gesto né pronunciarono una sillaba per mitigare la violenza tedesca. Nella concitazione, poi, partì un colpo dal fucile di un tedesco che non colpì nessuno ma svegliò Gildo, un sotto-ufficiale della Marina che riposava prima di iniziare il turno di lavoro all’Arsenale Militare di La Spezia.
Affacciatosi alla finestra per vedere cosa stesse succedendo si vide puntare i fucili tedeschi: mostrato il tesserino di sotto-ufficiale della Marina, convinse i tedeschi che, con la sua presenza, in paese non potevano esserci né partigiani, né disertori, né renitenti; accompagnò, inoltre, il comandante a un sopralluogo fuori paese, in una vecchia tettoia dove era riposto del fieno e nel prato contiguo dove c’erano dei “cappadi di paglia”.
L’ufficiale, convinto, fece spostare carri e militari nella nuova posizione per caricare il fieno e la paglia. L’astuzia di Gildo fece tirare un gran respiro di sollievo perché dalla nuova posizione i tedeschi non avrebbero potuto sentire l’eventuale grugnito dei maiali che avrebbe portato Gildo alla fucilazione per tradimento e messo a ferro e fuoco il paese.

Per facilitare la via del ritorno ai tedeschi venne data una mezza “carsenta” con una mezza pancetta di maiale e alcuni fiaschi di vino. Quando le sentinelle segnalarono che il convoglio aveva superato “Casa Venuti” all’Annunziata una donna andò al rifugio e con i colpi di pietra convenuti bussò sulla “masera”: dall’interno gli uomini tolsero i sassi di chiusura ed uscirono riportando i maiali nella loro stalla. Gildo, assunti gli abiti di dovere, s’incamminò verso la stazione ferroviaria per raggiungere La Spezia.
Nel paese era tornata la normalità guardinga di ogni giorno, anche se confortata dalla prova di piena solidarietà, ma nei volti si leggeva la preoccupazione e l’ansia per la situazione di sopraffazione e di prepotenza, condivise dalla Repubblica nazi-fascista, del presunto amico diventato feroce invasore. L’episodio è sintomatico perché rivela come anche in un piccolo paese la gente non condividesse l’istituzione, i contenuti, le proposte della Repubblica Sociale Italiana e come tutti fossero disposti a collaborare secondo i propri ruoli e ad essere di supporto all’attività partigiana per giungere il più presto possibile alla liberazione dall’incubo di quelle scelte.
Qualche anno più tardi, avvenuta la Liberazione e realizzato il sogno democratico, il forestiero, ricercato dall’Ovra, che accompagnava don Giulio, fece da Presidente della Repubblica la prima visita ufficiale a Pontremoli: era Giovanni Gronchi che veniva a ringraziare i partigiani e tutta la popolazione per l’accoglienza, la protezione e l’assistenza ricevuta con la condivisione dei valori della Resistenza.
Giampiero Bertoni