Il caso di Alfie Evans: anche questo è razzismo!

18editorialeAlfie, figlio di Tom Evans e Kate James, giovani e poveri, a dicembre 2017 viene ricoverato nell’ospedale di Liverpool, per una malattia neurologica degenerativa. Ha 7 mesi. Necessita di ventilazione artificiale, ma i medici curanti stabiliscono che è inguaribile, e dispongono di sospenderla. Kate e Tom si oppongono.
La legge inglese prevede che intervenga un giudice. Questi, il 20 febbraio 2018, decide “nel migliore interesse del piccolo” di interrompere la ventilazione. L’ospedale Bambin Gesù di Roma offre la propria disponibilità ad assisterlo. Il governo italiano gli concede la cittadinanza, per facilitarne il trasferimento.
Il 24 aprile la ventilazione viene sospesa, ma lui respira, e non muore. I medici, dopo alcune ore, riprendono l’idratazione e la nutrizione, prima interrotte. Il 25 aprile la Corte rigetta la richiesta di trasportarlo in Italia, il 28 Alfie muore.
Era un grave disabile, aveva necessità di sostegno per alimentarsi, per bere e per respirare, al pari di tanti come lui, di cui la nostra società si fa onorevolmente carico. Ai genitori, secondo i giudici, competerebbe solo il benessere (welfare) del bambino, non il diritto/dovere di fare il possibile per salvarlo. Beppino Englaro ha dovuto riconoscere le loro ragioni: “uno Stato non può opporsi alla scelta di una famiglia che vuole portare all’estero un figlio, perché altrove forse c’è una speranza” (Repubblica).
È paradossale che il “miglior interesse del minore” sia la sua morte ed è involontariamente umoristica l’affermazione che il trasferimento in Italia fosse da rifiutare per non correre il rischio che il piccolo subisse danni nel viaggio. Un’altra perla è stata l’affermazione che, per i genitori, fosse una tragedia il fatto che il bambino trasmettesse gioia e tenerezza: il disabile deve essere necessariamente sgradevole a vedersi, per poterlo eliminare più serenamente. Infine, la sua vitalità ha sbaragliato le catastrofiche previsioni dei curanti: è sopravvissuto per cinque giorni.
Questa tragedia non riguarda solo il Regno Unito. Riguarda tutti noi. È una storia di razzismo e discriminazione dei più subdoli e maligni: quella contro i malati cronici. Li si giudica scarti, persone ‘riuscite male’, quando sono bambini, o ‘andate a male’, quando sono anziani; in ogni caso, non del tutto o addirittura per niente persone.
Il collegio giudicante, ad esempio, ha portato a sostegno della propria posizione il fatto che Alfie, in ogni caso, non avrebbe goduto di una vita di qualità sufficiente. Non solo: Tom e Kate, troppo coinvolti, non avrebbero posseduto la lucidità necessaria per accorgersene; anzi, con il loro comportamento fanatico stavano soltanto facendo del male al bambino.
Un padre e una madre che cercano di tenere in vita il proprio figlio trattati come criminali! Questa vicenda, analoga ad altre, meno interessanti per i media, in Belgio e in Olanda, mostra che il criterio decisivo in simili questioni non è l’autonomia, bensì la convenienza sanitaria e sociale di sopprimere una vita “inutile” e magari costosa. Il vero accanimento non è quello terapeutico, a cui tutti ci opponiamo, ma quello in favore della morte.
E il dibattito non è fra chi ha pietà e chi non ne ha: è fra chi lascia l’individuo solo nelle mani dello Stato, e chi sa che, a tutti, per vivere, sono necessarie speranza, tenerezza ed amore, specie nei momenti difficili.

Pierantonio e Davide Furfori