L’attentato a Trump, effetto di una violenza verbale da fermare

“Solo Dio ha impedito che l’impensabile accadesse… In questo momento è importante restare uniti e mostrare il nostro vero carattere di americani. Amo davvero il nostro Paese e amo tutti voi”. Erano le prime parole di Trump dopo l’attentato. A dire la verità queste seguivano l’immagine di un Trump col pugno alzato e l’invito a “combattere”. Nello stesso tempo promette: “Non mi arrenderò mai”. In seguito alla solidarietà di tutto il mondo, in prima fila dello stesso Biden, sembrava che si potessero abbassare i toni di una campagna elettorale di una violenza verbale senza precedenti. Oggi si presenta come martire politico sperando di capitalizzare elettoralmente la morte sfiorata. In questo momento, viste le condizioni di Biden, da molti invitato a fare un passo indietro, e le difficoltà del partito democratico, sembra che nelle elezioni di novembre non ci sia partita con Trump ampiamente favorito. Comunque i toni “alti” non sono mancati né da una parte né dall’altra.

Joe Biden e Donald Trump
Joe Biden e Donald Trump

Ma Trump paradossalmente è stato vittima di una spirale che egli ha abbondantemente alimentato dall’attacco al Campidoglio degli Stati Uniti operato dai suoi sostenitori definiti “patrioti”, alle minacce ai giudici e testimoni dei suoi processi, alla derisione dei suoi avversari in primis il “corroto”Biden. Anche l’affermazione che ci “sarà un bagno di sangue” se non vincerà le elezioni non è senza conseguenze. Non si sa cosa abbia animato la mano dell’attentatore, come non si capisce come uno possa appostarsi a 150 metri da Trump senza che i servizi di sicurezza se ne accorgano. è un fatto che la società americana è attraversata da pulsioni di odio difficilmente comprensibili. In questo clima può succedere che Trump diventi vittima del dilagare di quelle armi che continua a difendere: il fucile automatico Ar-15 è una icona del movimento conservatore americano, l’attentatore indossava una maglietta del popolare canale Youtube pro-armi Demolition Ranch. Tutto questo non impedisce a Trump di sentirsi investito di una missione. “Solo Dio…” e “Non mi arrenderò mai” fa parte di una visione messianica delle chiese evangeliche profondamente legate al partito repubblicano. Non è detto che questo sia positivo. Già George Bush aveva dichiarato di aver pregato tutta la notte prima di decidere l’inizio della disgraziata guerra a Saddam. Oggi si sono sentiti i sermoni di alcuni capi delle chiese evangeliche inneggianti a Trump come il leader politico che Dio ha voluto preservare perché “portatore di un progetto divino per il Paese” mentre altri hanno chiesto a Dio di fare di Trump “un uomo in missione”, per mantenere l’America “forte e potente”. Altri leader religiosi hanno invitato a superare la “retorica della rabbia”. Qualcosa dovrebbe cambiare. Forse la ragione può avere il sopravvento sull’insipienza della violenza. Se però prevarrà la convinzione di essere investiti di una missione si prospettano tempi duri per l’America e per il mondo.

Giovanni Barbieri