Alla fine, bastiamo

Domenica 7 novembre – XXXII del tempo ordinario
(1Re 17,10-16 – Eb 9,24-28 – Mc 12,38-44)

È tempo di una vedova. Solitudine, abbandono, deserto, carestia d’amore, siamo nei pressi del tesoro del tempio. Gesù osserva un’umanità che, come sempre, è intenta a occupare i primi posti, a divorare gli ultimi e ad abitare lo spazio del religioso cercando di mettersi in mostra, di “farsi vedere”. “Guardatevi” dice Gesù, da chi vuol “farsi vedere”. È sempre questione di sguardi la vita, rapaci o misericordiosi. Guardatevi, dice il Vangelo, da quella aridità profonda che ognuno di noi si porta dentro, perché è terreno buono per lo scriba che ci portiamo dentro. Attenzione, perché per noi è pronta una “pena severa”, che non sarà quella del giorno del giudizio ma è quella che già ci infliggiamo liberamente decidendo di cedere alla logica della competizione, della bramosia e della vanità. Poveracci. Ricchi e vuoti e impauriti e sempre appesi allo sguardo altrui, all’altrui conferma, all’altrui giudizio. Condanna severa per chi fa dipendere la propria felicità dallo sguardo altrui.
Gesù non si mette in mostra, Gesù osserva, e il suo sguardo si posa su una vedova. E lei diventa esempio, nelle parole di Gesù. Lei si avvicina e consegna tutto quello che ha. Tanto o poco non è importante, è tutto. Ma non è quello che la rende speciale. È da duemila anni che la guardiamo questa vedova al tempio eppure ogni volta è come se non riuscissimo a mettere a fuoco qualcosa. Qualcosa sfugge sempre. E poi ci pensi bene e ti accorgi di una cosa apparentemente banale: lei le sue due monete le getta nello stesso tesoro dei ricchi, meno monete rispetto a loro però nello stesso tesoro. E allora un po’ capisci, capisci dove sta la vera differenza, non è il tanto o il poco, non il tutto o niente, la vera differenza tra la vedova e i ricchi è l’identità. Per gli scribi quel tesoro è il Dio della religione, è il Dio del ruolo, è il Dio del potere, è immagine di un Dio a cui è giusto dare tanto, sacrificare parte di sé. E allora hanno ragione, più uno si priva di qualcosa in nome di Dio e più è bravo. Alla donna non interessa essere brava, per la vedova quel tesoro è il Dio della vita, del desiderio, della felicità. E allora la donna non è più buona degli altri ma ha capito che Dio è il primo alleato della nostra felicità. Che credere non è donare qualcosa a Dio ma è donarsi a se stessi, è consegnarsi al proprio desiderio, è concedersi alla vita. Che non è mai tanta o poca. È sempre Tutta.
E allora perché dovrebbe trattenersi? Cosa dovrebbe trattenere? Credere non è questione di essenziale o di superfluo, credere è consegnarsi alla propria identità fino in fondo. Credere non è perdere qualcosa in nome di Dio ma decidere che l’unico tesoro che interessa a Dio è la nostra pienezza. È sempre e solo questione di fedeltà alla propria identità. Solo quando comprenderemo che affidarsi all’Amore, affidarsi a Dio, affidarsi a se stessi sono un gesto solo, solo allora scopriremo la vera identità del Tesoro del Tempio.

don Alessandro Deho’