Francesco esorta i vescovi dei due Paesi. “Dobbiamo impegnarci a promuovere insieme una educazione alla fraternità, così che i rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano”
Nei giorni scorsi, tra il 12 e il 15 settembre, Papa Francesco ha svolto il 34° viaggio apostolico. Questa volta la meta era il cuore dell’Europa: Ungheria e Slovacchia. Il pellegrinaggio ungherese è stato molto veloce; dell’incontro avvenuto a Budapest nel Museo delle Belle Arti col presidente ungherese János Áder e il primo ministro Viktor Orbán poco si è saputo.
Nel breve incontro con i vescovi ha poi ricordato che in Ungheria, “la democrazia ha ancora bisogno di consolidarsi”, ha citato le persecuzioni e il martirio della Chiesa ungherese durante il nazismo e il comunismo e ha elencato “problemi sociali” come “il degrado della vita morale, l’aumento della malavita, il commercio della droga, fino alla piaga del traffico di organi e a tanti fatti di bambini, assassinati per questo”, insieme alle “difficoltà delle famiglie, la povertà, le ferite che colpiscono il mondo giovanile”.
Nell’incontro con i rappresentanti del Consiglio ecumenico delle Chiese e alcune comunità ebraiche dell’Ungheria il Papa ha preso come esempio il Ponte delle Catene, che collega le due parti della città: “non le fonde insieme, ma le tiene unite. Così devono essere i legami tra di noi. Ogni volta che c’è stata la tentazione di assorbire l’altro non si è costruito, ma si è distrutto; così pure quando si è voluto ghettizzarlo, anziché integrarlo”. “Dobbiamo impegnarci a promuovere insieme una educazione alla fraternità, così che i rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano – ha continuato – Penso alla minaccia dell’antisemitismo, che ancora serpeggia in Europa e altrove. È una miccia che va spenta. Ma il miglior modo per disinnescarla è lavorare in positivo insieme, è promuovere la fraternità”.
Il motivo del pellegrinaggio pastorale del Papa era la conclusione del Congresso Eucaristico con la Messa solenne e l’Angelus. “L’Eucaristia sta davanti a noi per ricordarci chi è Dio. Non lo fa a parole, ma concretamente, mostrandoci Dio come Pane spezzato, come Amore crocifisso e donato. Possiamo aggiungere tante cerimonie, ma il Signore rimane lì, nella semplicità di un Pane che si lascia spezzare, distribuire e mangiare. Per salvarci, si fa servo; per darci vita, muore […] Gesù ci scuote, non si accontenta delle dichiarazioni di fede, ci chiede di purificare la nostra religiosità davanti alla sua croce, davanti all’Eucaristia […] Ci fa bene stare in adorazione davanti all’Eucaristia per contemplare la fragilità di Dio”.
Dopo poche ore di presenza a Budapest la partenza per la Slovacchia a Bratislava. Lì il discorso si allarga più chiaramente all’Europa e alla Chiesa europea. “Quando la Chiesa si ferma si ammala. Quando i vescovi si fermano, ammalano la Chiesa. Quando i preti si fermano, ammalano il popolo di Dio. Quando i vescovi e i preti si fermano ammalano il popolo di Dio”.
Nell’omelia della Messa celebrata nel santuario di Sastin, dove è venerata la Madonna dei Sette Dolori, patrona del Paese, suonano come una consegna non solo per la Chiesa locale. Papa Francesco esorta a vivere una fede come quella di Maria, che si mette in cammino: “Vincete la tentazione di una fede statica, che si accontenta di qualche rito o vecchia tradizione, e invece uscite da voi stessi, portate nello zaino le gioie e i dolori, e fate della vita un pellegrinaggio d’amore verso Dio e i fratelli. Perché non si può ridurre la fede a zucchero che addolcisce la vita”.
La Slovacchia, come il resto dell’Europa, ha bisogno di profeti: “Non si tratta di essere ostili al mondo, ma di essere segni di contraddizione nel mondo. Cristiani che sanno mostrare, con la vita, la bellezza del Vangelo. Che sono tessitori di dialogo laddove le posizioni si irrigidiscono; che fanno risplendere la vita fraterna, laddove spesso nella società ci si divide e si è ostili; che diffondono il buon profumo dell’accoglienza e della solidarietà, laddove prevalgono spesso gli egoismi personali e collettivi; che proteggono e custodiscono la vita dove regnano logiche di morte”.
E le parole più amplificate dai media vengono alla Divina Liturgia bizantina presieduta a Presov: “Non si contano i crocifissi: al collo, in casa, in macchina, in tasca – ha detto il Papa – Ma non serve se non ci fermiamo a guardare il Crocifisso e non gli apriamo il cuore, se non ci lasciamo stupire dalle sue piaghe aperte per noi, se il cuore non si gonfia di commozione e non piangiamo davanti al Dio ferito d’amore per noi. Se non facciamo così, la croce rimane un libro non letto, di cui si conoscono bene il titolo e l’autore, ma che non incide nella vita. Non riduciamo la croce a un oggetto di devozione, tanto meno a un simbolo politico, a un segno di rilevanza religiosa e sociale. La croce non vuole essere una bandiera da innalzare”.
I riferimenti alle sorti dell’Europa non mancano: “Come possiamo auspicare un’Europa che ritrovi le proprie radici cristiane se siamo noi per primi sradicati dalla piena comunione? Calcoli di convenienza, ragioni storiche e legami politici non possono essere ostacoli irremovibili sul nostro cammino”. “Essere un messaggio di pace nel cuore dell’Europa”, l’imperativo assegnato al Paese davanti alle autorità. Nell’incontro con i vescovi esorta a “trovare nuovi alfabeti per annunciare la fede”: è questo “il compito più urgente” non solo in Slovacchia, ma “presso i popoli dell’Europa”.
Come a Budapest, anche nella seconda tappa del viaggio gli incontri con il Consiglio ecumenico delle Chiese e con la comunità ebraica occupano un posto privilegiato. “Siamo uniti nel condannare ogni violenza, ogni forma di antisemitismo, e nell’impegnarci perché non venga profanata l’immagine di Dio nella creatura umana”, l’appello che fa eco a quello a disinnescare la miccia dell’antisemitismo lanciato a Budapest.
(G.B.)