Francesco d’Assisi sposo innamorato di madonna Povertà

Così Dante lo descrive nel canto XI del Paradiso: la povertà era rimasta senza invito a nozze dopo la morte di Gesù sul Calvario. Francesco la sceglie, la ama sempre più fortemente e trova la “perfetta letizia”, il senso vero dell’esistenza

38SanFrancesco_MadonnaPovertàLa festa di San Francesco il 4 ottobre ci è parso congruente ricordarla con i versi di Dante essendo in corso l’Anno Dantesco appena inaugurato nel settimo centenario della morte del poeta fiorentino. Nel canto XI del Paradiso Dante riflette sulla rivoluzionaria scelta di vita del santo di Assisi, ne esalta la fedeltà totale al Vangelo di Cristo in un piano di Provvidenza divina che governa il mondo con criteri impenetrabili alla mente umana.
Due i restauratori di una Chiesa contaminata da interessi mondani e di potere e aggredita da tanti movimenti ereticali: S. Francesco soccorre con la carità e S. Domenico con la dottrina. Dante tralascia i numerosi e noti eventi della vita esemplare di Francesco e insiste sulle povertà “sposata” con rinuncia alla ricca eredità paterna di fronte all’autorità del vescovo di Assisi.
L’allegoria e le metafore coniugali sono la struttura portante del canto; la povertà era rimasta senza invito a nozze dopo la morte di Gesù sul Calvario, dopo più di milleduecento anni l’Imitatore di Cristo la sceglie, la ama sempre più fortemente e trova la “perfetta letizia”, il senso vero dell’esistenza. La felicità è “contagiosa”: la concordia si diffonde in molti altri che sono pronti a convertire la loro vita.
Uno dopo l’altro i fratelli/frati si “scalzano”, con trepidante zelo di trovare una così grande pace seguono lo sposo perché molto piace la sposa. Francesco è stato un Sole che ha illuminato e continua ad illuminare di bene la storia umana, è quanto fa anche il nostro papa oggi, che provvidenzialmente si chiama Francesco ed è la più sapiente luce di orientamento nello smarrito tempo presente.

Giotto ad Assisi intona il “cantico francescano”
degli affreschi della Basilica Superiore

38Giotto_SanFrancescoDue giganti dell’arte, Giotto e Dante, quasi coetanei esaltano la grandezza di Francesco d’Assisi, già canonizzato nel 1228 a soli due anni dalla morte e subito celebrato nel mondo insieme ai suoi frati. Dante potrebbe aver visto le opere di Giotto ad Assisi, nel canto XI del Purgatorio dice che ha già superato per fama il maestro Cimabue. Giotto (Vicchio 1267-Firenze 1337) per attribuzione pressoché concorde è autore di un ciclo di 28 affreschi che raffigurano con intensità emotiva episodi della vita di San Francesco narrati nella Legenda maior di San Bonaventura, la più antica e autorevole biografia del Santo assisiate.
Nella chiesa Superiore ad Assisi in ogni campata a gruppi di tre sono dipinti i miracoli e i gesti di Francesco con sottolineatura della sua imitazione di Cristo: tra questi La rinuncia agli averi, La conferma della Regola, La cacciata dei diavoli da Arezzo, Il presepe di Greccio, Le stimmate, Il sogno di Innocenzo III che vede la basilica Lateranense pericolante e sostenuta dalle spalle vigorose di Francesco: evidente il significato allegorico della scena, richiama il canto di Dante che dice Francesco e Domenico due principi inviati da Dio per rendere la Chiesa più sicura e più fedele.
Gli storici dell’arte hanno in vario modo messo in risalto la diversità del Giotto lirico di Assisi (qui attivo dal 1295) dal Giotto tragico della cappella Scrovegni di Padova, che però non intacca l’unità etica e poetica dell’arte giottesca. Giotto torna sul tema francescano col ciclo murale della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, diffonde serenità la scena de Il Trapasso. Ancor prima di Giotto Francesco è rappresentato in pitture: nel 1235 a Pescia nella tavola di Bonaventura Berlinghieri. Nella basilica Inferiore di Assisi il “Maestro delle Vele” dipinse Cristo celebra le nozze tra Francesco e Povertà vestita di stracci in mezzo ai rovi, e Francesco in gloria; vi è pure il ciclo del “Maestro di San Francesco”e vi lavorò anche Cimabue con una Maestà con le Vergini e a lato San Francesco.
Nei secoli successivi non si contano pitture e sculture a soggetto francescano diffuse in ogni dove nel mondo. Per quelle della Lunigiana citiamo la tela di autore anonimo del sec. XV raffigurante il Santo nella cappella Seratti e L’estasi tela settecentesca di Bettino Cignaroli, entrambe nella chiesa di S. Francesco a Pontremoli, e anche la statua del “poverello” in piazza Duomo ora rimossa sul ponte, la formella (di cui si scrive qui sopra), la statua di Villafranca opera pregevole di Riccardo Rossi. (m.l.s.)

Giotto, Storie di San Francesco: la Rinuncia agli averi (1292-1296). Assisi, Basilica superiore.
Giotto, Storie di San Francesco: la Rinuncia agli averi (1292-1296). Assisi, Basilica superiore.

Nella sua ascesa Dante è arrivato al quarto cielo, quello del Sole che accoglie il trionfo degli spiriti sapienti, fa l’elogio di Francesco, Sole nato alle falde del monte Subasio, là dove addolcisce di più la sua ripidezza e pertanto, se si vuole usare proprietà di linguaggio, Assisi deve denominarsi Oriente. La povertà è un bene fecondo, è sconosciuta ricchezza e Dante la intende non col rigorismo degli spirituali che negavano il diritto di proprietà con altre implicazioni di ordine morale, ma come liberazione dall’avido desiderio di possesso di cose e di potere, è l’antitesi della famelica lupa della “selva oscura” che non si sazia mai, si unisce a tanti altri mali e impedisce di raggiungere la salvezza, e Dante dovrà fare ben altro e impegnativo viaggio di riflessione sulle condizioni spirituali umane prima di arrivare all’alta visione di Dio “Amor che muove il Sole e l’altre stelle”.
La spiritualità francescana è ritenuta dagli studiosi “la linfa vitale dell’ardore mistico” e della personalità di Dante che orientò il suo “disegno utopistico di una riforma della Chiesa nel segno della povertà”(A. Marchese). Vestito di umile saio tanto da destare stupore, ma senza imbarazzo e con la dignità di un re il “poverello” di Assisi si presentò ai papi Innocenzo III e Onorio III che diedero approvazione, orale l’uno e ufficiale l’altro, alla dura regola del nuovo Ordine monastico. è un combattente, è il grande della povertà, ha una “dignità interiore e disadorna”.
Riformò la Chiesa rimanendo al suo interno, non aderì ai gruppi che si posero fuori e contro. In tempo di Crociate contro i sultani islamici andò nel 1219 in Terra Santa per far vincere la pace contro la violenza delle armi, ma i tempi non erano maturi a tanto e con sapienza “politica” tornò in Italia, si ritirò nel “crudo sasso intra Tevero e Arno” alla Verna, fedele imitatore di Cristo fino a ricevere le stimmate. Il 4 ottobre 1226 morì e lasciò ai suoi frati come giusta erede la donna sua più cara”.
Il premio di salvezza eterna non è garantito dalla scelta di farsi frate, anche in convento si può andare nel vano delle fascinazioni terrene, quelle che sono indicate nei versi iniziali del canto XI: carriere fatte non per conoscere ma per ottenere soldi e immagine, dominio ottenuto con la violenza, corruzione e furti, passioni carnali. Una nota marginale la possiamo dire di “galateo”, quello che oggi manca del tutto negli scontri televisivi e nella comunicazione digitale con niente pensiero, solo insulti. Il “bon ton” insegna che non bisogna lodarsi da soli e non si devono diffamare gli altri. Il domenicano Tommaso d’Aquino elogia il fondatore dell’Ordine francescano, ma è il francescano Bonaventura a denunciare gli errori in cui erano incorsi i propri confratelli, già divisi tra spirituali (rigida osservanza della Regola) e conventuali (attenuata).

Maria Luisa Simoncelli