Domenica 24 maggio – Ascensione del Signore
(At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20)
“Gli undici discepoli andarono”. Undici, numero che porta dentro di sé il tradimento e l’incompletezza, la fragilità e la povertà, la precarietà e il fallimento. Non dobbiamo dimenticare di essere undici, mai dodici, mai pienezza, sempre un passo dietro, sempre mancanti, sempre uomini che elemosinano, uomini assettati e affamati, uomini delle Beatitudini. La Speranza, ciò che ogni uomo è chiamato a testimoniare, nasce solo se custodita dalla mancanza.
Siamo chiamati a elemosinare amore, attenzione, cura, tenerezza. Senza vergogna. Siamo chiamati a testimoniare di essere Undici, cioè bisognosi, incompleti e affamati, esposti sul vertiginoso Abisso dell’Assoluto come ingenui innamorati e non come coraggiosi eroi. Nostro esempio evangelico sia il cieco che grida ai bordi della strada, Zaccheo raccolto dal sicomoro, Pietro quando rinnega e poi piange, la prostituta innamorata e scandalosa.
Undici, numero incastrato dentro al cuore come un doppio uncino, una ferita che fa male, come quando dobbiamo ammettere che siamo peccatori amati e perdonati. È quello lo spazio di libertà e di testimonianza a cui siamo chiamati. E sarà spazio profetico, in un mondo che, come sempre, cerca le cose che funzionano, che servono, che rispondono ai bisogni, noi, Vangelo alla mano, dobbiamo parlare loro di un seme che muore per amore. Di una divina essenziale inutilità. Il mondo in cui viviamo ci chiede di funzionare, di organizzare e costruire, di moltiplicare le iniziative, di esserci sempre e per tutti, per fortuna è impossibile, la logica del bisogno è inesauribile. Occorre ricordarsi di essere Undici. E per sempre discepoli. Non maestri, discepoli. E il discepolo ha bisogno di salire sul monte, cammino mistico. Ed è l’unica cosa che conta.
“Gli undici discepoli andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato”. È splendido questo passaggio, la Galilea e il monte. La Galilea è il luogo del quotidiano e il monte è il luogo della manifestazione del divino, sul monte ci si inginocchia e ci si tolgono i sandali. Siamo chiamati a inginocchiarci al divino che danza dentro le storie di tutti i giorni. Dentro la Comunità non solo cristiana che incontriamo, sarà undici, sarà incompleta e fragile, sbagliato tentare di perfezionarla, bisogna solo amarla, inginocchiati davanti al mistero di un bambino che nasce, guardando con ammirazione le famiglie che tentano, in questo mondo complesso, di tirare avanti come meglio possono, condividendo il pane dell’eucarestia che non è pane da meritare ma cibo gratuito indispensabile per attraversare il deserto. Accompagnando la crescita dei figli e stando accanto agli ammalati e ai morenti. Da fragile condividere le fragilità.
don Alessandro Deho’