Mondo diviso tra i tanti che sono nell’emergenza e i pochi che ancora sperano di evitarla
La Lombardia, di solito ai primi posti nelle classifiche “virtuose”, si è ritrovata, assieme a quasi tutto il Nord del Paese, tristemente in testa alla classifica che cerca di fotografare l’espansione del coronavirus Covid-19 in Italia. All’interno della regione, poi, alcune aree appaiono quasi travolte dall’emergenza e si deve solo all’alto livello raggiunto dall’organizzazione sanitaria in quei luoghi se, con il sacrificio di già tanti operatori del settore, la diga non è crollata. Oltre alle zone della bergamasca e del bresciano, più vicina a noi si trova Cremona, che già è vicina a quota 1.000 in provincia, con più di 300 decessi (abbiamo segnalato la scorsa settimana quello dell’ex direttore del settimanale diocesano, mons. Vincenzo Rini).
Nella corsa contro il tempo che si sta svolgendo un po’ in tutto il Paese, venerdì scorso è stato inaugurato in città il primo ospedale da campo in Italia, allestito in tempi da record davanti all’ospedale cittadino e donato da Samaritan’s Pursue, organizzazione umanitaria evangelica statunitense che ha messo anche a disposizione suoi medici e sue attrezzature. L’ospedale “Maggiore” è infatti ormai vicino al collasso, con quasi un centinaio tra medici e infermieri positivi al Covid-19 e dunque in isolamento.
Don Maurizio Lucini, incaricato diocesano per la pastorale della salute e cappellano all’ospedale, in quarantena perché positivo al tampone, sottolinea al SIR l’importanza di una assistenza spirituale: “Medici e infermieri si sfogano e ci chiedono: pregate per noi, abbiamo bisogno del vostro sostegno perché di fronte alla gravità di questo dramma ci sentiamo impotenti”.
Difficile, invece, accedere alla terapia intensiva perché si sottrarrebbe materiale prezioso a medici e infermieri. Le prime settimane, quando ancora si poteva entrare nelle stanze degli infettivi, “era evidente la loro gioia nel vedermi, nel poter fare una breve preghiera e ricevere una benedizione”. Così, dice, si rivela Dio in mezzo a tanta sofferenza: “nei gesti d’amore di medici e infermieri che rischiano di ammalarsi e anche di dare la vita pur di assisterli”.
Già destinati 3 milioni: Cei e Caritas in campo
con raccolte di fondi e stanziamentiPer sostenere alcune strutture sanitarie, la Conferenza episcopale italiana ha stanziato 3 milioni di euro provenienti dall’otto per mille, che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica. Il contributo raggiungerà la Piccola Casa della Divina Provvidenza – Cottolengo di Torino, l’Azienda ospedaliera “Cardinale Giovanni Panico” di Tricase, l’Associazione Oasi Maria Santissima di Troina e, soprattutto, l’Istituto Ospedaliero Poliambulanza di Brescia.
Viene anche aperta una raccolta fondi alla quale si può contribuire destinando l’offerta – che sarà puntualmente rendicontata – al conto corrente bancario: IBAN: IT 11 A 02008 09431 00000 1646515 – intestato a: CEI – causale: Sostegno sanità. Anche Caritas Italiana lancia una campagna di raccolta fondi, della durata di un mese, per sostenere l’impegno di chi è in prima linea nella lotta al Coronavirus.
Pur nella consapevolezza delle difficoltà economiche in cui già versano, le diocesi sono invitate ad “abbracciare con convinzione scelte solidali, che possano contribuire a rispondere all’emergenza Covid-19”.
Molte le diocesi che già hanno dato risposte mettendo a disposizione di medici e infermieri camere che li possano ospitare nei turni di riposo.
Per contribuire alla raccolta fondi di Caritas Italiana (via Aurelia 796 − 00165 Roma) si può utilizzare il conto corrente postale n. 347013, o effettuare una donazione on-line tramite il sito www.caritas.it, o un bonifico bancario (con la causale “Emergenza Coronavirus”) su diversi conti: Banca Popolare Etica (Iban: IT24 C050 1803 2000 0001 3331 111); Banca Intesa Sanpaolo (Iban: IT66 W030 6909 6061 0000 0012 474); Banco Posta (Iban: IT91 P076 0103 2000 0000 0347 013): UniCredit (Iban: IT 88 U020 0805 2060 0001 1063 119).
A livello europeo e mondiale, la situazione si presenta quanto mai variegata. La Cina, con il suo triste primato di “apripista”, comincia a respirare e a pensare al ritorno alla normalità: dalla riapertura delle scuole, forse già in aprile, alla ripresa delle piccole e grandi imprese economiche. Ma la cautela è d’obbligo. A due mesi dall’instaurazione della quarantena per 60 milioni di persone, nella provincia dell’Hubei e nel suo capoluogo Wuhan, non si segnalano nuove infezioni da cinque giorni di fila.
Così si apre il problema dei contagi importati. Padre John Baptist Zhang, di Jinde Charities, mette in guardia: “Il picco dell’epidemia si sta riducendo”, ma non è completamente scomparso. Il numero di casi importati dall’estero è in aumento, non può essere trascurato”.
Stanno rivedendo o hanno già rivisto le loro scelte in materia di sicurezza personaggi come Boris Johnson e Donald Trump, che sono passati da dichiarazioni assurde sull’inutilità delle misure di prevenzione all’emanazione di provvedimenti restrittivi.
Nel Regno Unito, di fronte all’aggravarsi dei numeri, si sta passando alla “chiusura totale”, giungendo a riconoscere che questo è “il pericolo più grande che ha minacciato questo Paese in decine di anni”. Negli Usa, dopo essere stato scavalcato da diversi stati e città, prima fra tutte New York, Trump è ormai costretto a riconoscere lo stato di emergenza. A fare le spese della crisi in quel Paese saranno soprattutto i senza tetto, dato che le istituzioni che li seguono sono chiuse e le offerte di beneficienza si stanno orientando verso il sostegno alla lotta al coronavirus.
Antonio Ricci