Domenica 8 aprile, seconda domenica di Pasqua
(At 4,32-35; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31)
Comincia una nuova settimana, la prima dopo la morte di Gesù. I discepoli si riuniscono, in un luogo sicuro, a porte chiuse.
Quella mattina, Pietro e Giovanni sono andati al sepolcro, e l’hanno trovato scoperchiato e vuoto. E Maria di Màgdala afferma addirittura di aver incontrato Gesù, risorto dai morti.
Alla sera, all’improvviso, senza che nessuna porta sia stata aperta, Gesù compare in mezzo a loro, e come conoscendo i loro timori, la prima cosa che dice loro è: “Pace a voi!”.
La vista del loro Maestro fuga nei discepoli ogni dubbio: non è un fantasma, ha pure evidenti le ferite dei chiodi. Ma non è venuto solo per tranquillizzarli, è di nuovo con loro per dare loro la sua ultima consegna: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati.”
Messa così, è facile immaginare questa come solo una sanzione del potere che avranno i discepoli da ora in poi, ma non è così semplice: il Maestro sta investendo loro e noi della precisa responsabilità di perdonare. Il perdono non è un potere di cui possiamo disporre a nostro piacimento, è un obbligo che abbiamo nei confronti del prossimo. Senza di esso, condanniamo lui e noi stessi. Con esso, siamo salvati entrambi.
Tra i presenti alla comparsa di Gesù manca Tommaso, ma quando si precipitano da lui affermando di aver visto il Maestro risorto, questi, come molti anche tra noi, chiede delle prove: vuole vederlo lui stesso, ma non solo, vuole toccare le sue ferite, allora crederà.
E Tommaso ottiene quanto ha chiesto: otto giorni più tardi, Gesù si manifesta di nuovo in mezzo ai discepoli, compreso Tommaso, cui il Maestro si rivolge direttamente: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco[…]Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.
Non è un elogio della credulità, ma un invito a lasciare aperto il cuore, ad avere fiducia in Dio e nei fratelli, quella fiducia che permette di relazionarci gli uni con gli altri e di crescere, che è necessaria ad impedire che il dubbio degeneri in sterile scetticismo fine a se stesso, che è il solo mezzo attraverso cui “[avere] la vita”, come scrive Giovanni a conclusione del suo Vangelo.
Pierantonio e Davide Furfori