
Disordini e tensioni nella regione della Spagna. Se nel passato esistevano motivazioni identitarie, oggi sono in larga parte economiche
Le immagini della polizia spagnola che reprime il voto dei catalani sull’indipendenza della Catalogna e le misure giudiziarie delle settimane precedenti la consultazione hanno pesantemente condizionato il giudizio degli osservatori della vicenda catalana.
L’intervento delle forze dell’ordine – conseguente, è bene ricordarlo, ad una sentenza della Corte Costituzionale spagnola, che aveva già da tempo giudicato illegittimo il referendum fissato da Barcellona il primo ottobre – si è manifestato in maniera violenta, suscitando in molti il ricordo delle pratiche della dittatura franchista e spostando quindi la simpatia dell’opinione pubblica verso gli autonomisti.
Una volta condannata la violenza con cui si è tentato di reprimere un voto illegittimo ma comunque pacifico, quanto è conforme al diritto una secessione della Catalunya dalla Spagna?
L’appellarsi al principio di autodeterminazione dei popoli, sancito dal diritto internazionale e fatto proprio dalla Carta delle Nazioni Unite, non è corretto. Consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera o facente parte di uno stato che pratica la segregazione, possa ottenere l’indipendenza, associarsi a un altro stato o scegliere autonomamente il proprio regime politico è un diritto applicabile oggi ad altri popoli (ma il referendum dei curdi dell’Iraq, celebrato anch’esso la settimana scorsa, ha scaldato molti meno cuori, in Occidente), non alla Catalogna che, sì, negli anni del franchismo, assieme ai Paesi Baschi, subì consistenti restrizioni culturali e linguistiche, ma che oggi sperimenta ben altro contesto: un voto quasi plebiscitario la costituzione spagnola del 1978, uno Statuto autonomo, una estesa autonomia linguistica, culturale e soprattutto fiscale.
Una situazione analoga riguarda attualmente altri gruppi indipendentisti in Europa: i baschi, gli scozzesi, i fiamminghi. Tutti accomunati da un percorso analogo: se l’indipendentismo nei secoli scorsi era sinceramente identitario (la lingua, la religione, le tradizioni), oggi è in larga parte economico. Parliamo di regioni tra le più avanzate nei loro rispettivi stati – “La Catalogna indipendente sarebbe il settimo paese più ricco d’Europa” ha dichiarato non a caso in campagna elettorale Artur Mas, governatore della comunità autonoma spagnola – che godono già di alta autonomia e che mirano a rafforzarla: più risorse per se stessi, meno per finalità solidaristiche tra regioni dello stato.
Un fenomeno, questo, peraltro accentuato dalla crisi economica e dalla globalizzazione: la prima produttrice di crescenti disuguaglianze territoriali che le regioni ricche non vogliono colmare, la seconda abilmente manipolata per rinfocolare gli aspetti identitari necessari a sostenere la propaganda secessionista. Insomma, nell’Europa occidentale l’indipendentismo dissimula l’egoismo delle regioni avanzate, come mostrano anche l’autonomismo macchiettistico della Lega Nord o quello serio incarnato dal durevole successo dei conservatori bavaresi della CSU.
Stupisce che anche chi incarna ideali di sinistra, per sua natura internazionalista, sostenga l’indipendenza di Barcellona (ma magari non quella dei “padani”!), scambiando i ricchi catalani con uno dei tanti popoli oppressi nel mondo d’oggi. C’è un’ultima considerazione, la più importante, che ruota attorno alla vicenda della Catalunya: il futuro dell’Europa.
Nell’assetto giuridico e geografico attuale l’Unione Europea è di fatto guidata da un gigante economico e politico di 80 milioni di abitanti, la Germania, in coabitazione con la Francia, seconda potenza economica del Continente, con 67 milioni di abitanti. Una Unione fatta di stati sempre più piccoli, numerosi e disgregati, non potrà che perpetuare una leadership, quella franco-tedesca, che tutti, a parole, dicono di volere superare.
(Davide Tondani)