
Nel giugno di cinquant’anni fa una guerra breve con i carri armati israeliani a Gerusalemme. Israele giustificò la “Guerra dei Sei Giorni” contro la Lega araba quale strumento per rompere la condizione di insicurezza e l’isolamento politico e diplomatico.

La nascita dello Stato di Israele nel 1948 generò una conflittualità nell’ampia regione mediorientale che non è ancora risolta, anzi in questi giorni si sta facendo sempre più complessa e pericolosa. Gli osservatori più attenti vedono che solo trovando soluzioni durature di pacificazione in Medio Oriente il mondo intero potrà concludere questa “terza guerra mondiale a pezzi” che papa Francesco vede scatenata e si potrà sconfiggere la follia terroristica. L’idea sionista di ricostituire una patria per gli ebrei dopo millenni di diaspora e dopo l’Olocausto aveva un suo fondamento, ma non fu portatrice di pace. Si aprì una stagione di guerre e di azioni terroristiche, di colonizzazione di territori e di costruzione di muri.
Nel 1967 Israele fa la “guerra dei 6 giorni” (5-10 giugno) per rompere la condizione di insicurezza e l’isolamento politico e diplomatico in cui lo costringeva la Lega araba dei paesi confinanti, tutti radicalmente ostili tranne il Libano. Forte di una superiorità militare ed economica grazie anche a flussi di denaro dalle comunità ebraiche di tutto il mondo, con cittadini dotati di esperienze culturali e professionali avanzate, appoggiato dagli Stati Uniti, Israele in pochi giorni vince alla grande contro Egitto, Siria, Giordania e Iraq.
Tutto comincia alle 7,45 del 5 giugno 1967: gli aerei da combattimento distruggono quasi completamente l’aviazione dell’Egitto comandato da Nasser. In poche ore sono annientati anche gli aerei giordani e siriani. Nelle guerre moderne la guerra dal cielo è fondamentale e dà copertura alle battaglie per terra.
Gli israeliani tolgono all’Egitto in poche ore tutta la penisola del Sinai passando per la striscia di Gaza. I carri armati arrivano a Gerusalemme Città Vecchia, conquistano la Spianata delle moschee e il Muro del Pianto, prendono Jenin, portano il confine al fiume Giordano varcando la Cisgiordania contro re Hussein alleato dell’Egitto, tolgono le alture del Golan alla Siria.

L’ONU ordina di fermare i combattimenti il 10 giugno. Dopo la guerra la pace non è arrivata, ci saranno altre guerre, masse di profughi palestinesi nei campi dei paesi vicini, con successive espulsioni, stragi e un popolo rimasto senza Stato, che vive nei territori della Palestina assediato dai coloni israeliani, che sempre costruiscono nuovi villaggi e prendono le sorgenti. Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò la risoluzione 242 con richiesta di rispettare la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di ogni Stato dell’area. Ma una sfumatura grammaticale ha permesso a Israele di non risolvere il problema dei profughi e di non ritirare le forze armate da tanti territori occupati (solo il Sinai tornerà all’Egitto).
Nel testo in inglese della Risoluzione 242 è scritto ritiro “da” territori occupati, nel testo in francese “dai”: una differenza minima che ha generato interessate, ben calcolate interpretazioni diplomatiche e la questione palestinese dopo 50 anni non è ancora risolta. A impedirla fu molto il contesto della “guerra fredda”, con Israele sempre più strumento della politica estera americana contro l’URSS sostenitrice dei paesi arabi più intransigenti. I palestinesi, che da secoli abitavano anch’essi nella biblica Terra Promessa agli Ebrei, si spaccano in gruppi di lotta per la Liberazione della Palestina- L’OLP di Arafat arrivò ad accettare di costituirla in Stato autonomo con implicito riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele.
Altri movimenti mirano alla sparizione dello Stato di Israele, come quello guidato da George Habbash, con appoggio della Libia di Gheddafi e dell’Iraq. Ci sono stati diversi tentativi di accordo, quello di Camp David del 1979 portò alla firma della pace tra Israele e Egitto, ma per questo il presidente egiziano Sadat fu assassinato nel 1981 da fondamentalisti islamici.
Nel 1995 a Oslo accordi tra Rabin e Arafat miravano a normalizzare le relazioni tra Israele, i palestinesi e il mondo arabo, ma Rabin, primo ministro israeliano, fu ucciso da un colono ebreo estremista. Col sangue fu di nuovo fermato un probabile processo di pace.
Tra intermittenti ostilità e negoziati di pace rimane un sogno l’accordo israelo-palestinese
Dopo quattro guerre, due intifada, assassini di leaders, attentati, ripetute crisi, deliberazioni ufficiali o virtuali non siamo arrivati alla normalizzazione né per gli israeliani né per i palestinesi. A Oslo era stata creata l’Autorità Nazionale Palestinese con sede a Ramallah. Nel 2012 l’Onu riconosce lo Stato di Palestina, ma l’accordo definitivo rimane nel mondo dei desideri e i palestinesi, che sono spaccati tra moderati e radicali, sono insediati in modo discontinuo su una terra che anche per loro è il “focolare”. Nel 2000 con la nostra diocesi siamo stati in Israele e abbiamo percepito i disagi, la differenza sociale tra i due popoli: sono i palestinesi in stato di inferiorità. Nella stessa Gerusalemme anche l’alfabeto rende visibile la divisione con insegne in aramaico e in arabo nel settore est. I palestinesi fanno lavori modesti, anche quelli con cittadinanza israeliana, hanno molte difficoltà di accesso all’università e alle professioni qualificate, i controlli sono estenuanti. Nel 2005 il governo conservatore di destra di Ariel Sharon fece fare il ritiro unilaterale da Gaza dei soldati e dei coloni, ma Israele controlla i confini di terra e di mare e lo spazio aereo. La striscia di Gaza è di fatto una prigione a cielo aperto, ha una densità altissima di popolazione che vive in condizioni terribili. L’avvilimento alimenta il terrorismo che il governo di Hamas fieramente ostile a Israele non ostacola, anzi pratica con impiego di missili, si rifornisce attraverso tunnel scavati verso il confine egiziano a sud. Qualche spiraglio per chiudere lo storico conflitto israelo-palestinese, con richiesta anche dai sauditi e loro alleati, viene dalla notizia che forse si arriverà in questa estate ad un vertice tra il presidente palestinese Mahmoud Habbas e il primo ministro israeliano Netanyahu. Visti i precedenti è però difficile credere che si giungerà una buona volta all’unica soluzione veramente valida di due Stati per due popoli, auspicata sempre dal Vaticano.