Il Concilio che rimise la Chiesa in sintonia con il mondo

Sessant’anni fa , l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII apriva il Concilio Vaticano II

“Gioisce la madre Chiesa»: con queste parole l’11 ottobre 1962 Giovanni XXIII apriva in San Pietro il Concilio ecumenico Vaticano II. Papa Roncalli, ritenuto un anziano pontefice di transizione, annunciò nel gennaio 1959 la convocazione dell’assise ecumenica, la seconda indetta in Vaticano a circa 90 anni da quella convocata da Pio IX e mai conclusasi dopo la presa di Porta Pia. Il Papa chiarì da subito che il nuovo Concilio avrebbe avuto carattere pastorale: nessuna nuova condanne da comminare, a differenza del precedente, e nessuna disputa dottrinaria da dirimere, ma un “aggiornamento” delle modalità di annuncio del Vangelo da parte di una Chiesa da tempo percorsa in modo più o meno tollerato da tutta una serie di istanze di rinnovamento ma sostanzialmente ancora intrisa di quell’intransigenza verso il mondo che aveva permeato il magistero papale da metà Ottocento sino a Pio XII. Il pontefice usò la sua autorità per garantire ai circa 2.500 padri conciliari massima libertà dai condizionamenti della Curia Romana, espressione dei non pochi vescovi propugnatori di una Chiesa immutabilmente definita dal Concilio di Trento (1545-1563).
A Giovanni XXIII succedette nel giugno 1963 Paolo VI che, al contrario del predecessore, fece ricorso più volte all’autorità papale per dirimere i punti nodali del dibattito. Il rinnovamento che ne scaturì non arrivò ai livelli auspicati dalle frange più riformatrici del cattolicesimo, ma l’operato di Papa Montini consentì, a dispetto degli auspici dei conservatori, di portare a termine il Concilio e di non spaccare la Chiesa: i vescovi che espressero il “non placet” sulle quattro costituzioni dogmatiche non furono che poche unità e solo il francese Marcel Lefebvre spinse la sua opposizione fino agli atti scismatici che portarono nel 1988 alla sua scomunica. Un nuovo rapporto con la storia e con la società fu la cifra distintiva del Concilio che delineò una Chiesa che si impegnava a leggere positivamente i “segni dei tempi” e a rapportarvi l’annuncio cristiano, la cui trasmissione – come sottolineò la costituzione Dei Verbum – necessitava di un’opera permanente di comprensione ed approfondimento che passava per un “largo accesso alla sacra Scrittura” anche da parte dei laici.

Papa Paolo VI in una celebrazione durante il Concilio Vaticano II

Il rinnovamento conciliare, che ridefinì l’idea di libertà religiosa e riavviò il dialogo ecumenico, passava per un capovolgimento del rapporto fino ad allora instaurato tra cristianesimo e società: non più princìpi inamovibili da applicare alla realtà, qualsiasi essa fosse, ma una lettura del mondo in trasformazione alla luce dei fondamenti teologici. Il nuovo approccio implicitamente chiuse le porte ad ogni nostalgia dell’epoca della Cristianità medievale e permise ai padri conciliari di dare una risposta in nome del Vangelo a “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”, come recita il proemio della Gaudium et Spes, che affermò l’autonomia delle istituzioni civili rispetto alla sfera religiosa, il primato della coscienza dei singoli cristiani rispetto alle scelte individuali e il pluralismo delle opinioni in quelle socio-politiche.
L’uso delle lingue nazionali nelle celebrazioni eucaristiche espresso nella costituzione Sacrosantum Concilium e la successiva riforma liturgica del 1969 furono il frutto del Concilio più visibile ai fedeli, ma fu la riflessione sulla Chiesa, contenuta nella più importante delle costituzioni dogmatiche, la Lumen Gentium, a fare da guida a tutte le riforme del Vaticano II, con l’affermazione dell’ecclesiologia di comunione – la Chiesa come Popolo di Dio in cui si riconosceva ruolo e dignità ai laici – sulla precedente idea di Chiesa come società gerarchica. La nuova idea di Chiesa, tuttavia, si dimostrò anche il nodo più problematico del dopo Concilio: nonostante passi avanti formali come il Sinodo dei Vescovi, il primato petrino ha continuato a sovrastare il nuovo postulato della collegialità episcopale mentre il protagonismo dei laici non è mai stato effettivamente promosso nei decenni successivi, soffocato da un clericalismo di ritorno che Papa Francesco non ha esitato a definire “perversione della Chiesa”.
A 60 anni da quell’11 ottobre la disputa dottrinale tra il chi giudica il Vaticano II un elemento di rottura con la Chiesa preconciliare e chi – tra questi Benedetto XVI, che dell’assise romana fu uno dei massimi protagonisti in veste di teologo – lo colloca nella continuità di una Chiesa sempre in riforma, passa in secondo piano di fronte alle resistenze al rinnovamento, alle nostalgie per un passato lontano, all’isolamento delle voci critiche e agli eccessi di prudenza che hanno impedito una piena attuazione del disegno conciliare. Il Cammino Sinodale indetto da Papa Francesco, se non verrà sprecato o abilmente depotenziato, sarà l’occasione per riprendere le realizzazioni mancate di quella che Giovanni Paolo II definì “la grazia più grande fatta da Dio alla Chiesa del XX secolo”.

(Davide Tondani)