
Domenica 7 febbraio – V del tempo ordinario
(Gb 7,1-4.6-7; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39)
Non perde tempo Gesù, subito dice il vangelo, si reca con Giacomo e Giovanni nella casa di Simone e Andrea. Subito, a voler abbreviare il più possibile il percorso, come a dire che deve esserci poco spazio e poco tempo e poca differenza tra la sinagoga e la casa, tra la fede e la vita. Chiesa-Casa: a cucire immediatamente uno strappo che noi tendiamo sempre ad allargare: che la fede è una cosa e la vita un’altra. Per Gesù no: sinagoga casa, senza fermate intermedie, come a dilatare la potenza di quella parola “insegnare”; che dobbiamo lasciarci segnare dentro anche dove la vita perde di solennità, nel privato, dietro le apparenze, quando stiamo in pantofole tra le mura domestiche.
Ma non puoi aprire il rotolo e commentare Isaia, dilatare non è riprodurre, altro il profumo della vita: serve la fragranza del pane e non la barocca complessità dell’incenso, ed altre liturgie, altri gesti, non meno sacri solo diversi. Certo una cosa rimane uguale, te ne accorgi subito, come la sinagoga/chiesa non era luogo perfetto, esente dal male (indemoniato) così la casa non è guscio sicuro, nemmeno la casa di Pietro. Attraversi la soglia e già ti parlano di lei. La donna di casa è a letto con la febbre. E non sembrerebbe niente di preoccupante però lei è ferma. Non serve. Non può esserci servizio nei suoi gesti, non possono esserci gesti: è come se la febbre le avesse prosciugato la possibilità della liturgia domestica. E allora quello che serve non è l’insegnamento, o meglio è che l’insegnamento prenda una forma liturgica domestica: serve una danza, non servono parole. E quello che Gesù fa è: danzare. Si avvicina, nel silenzio, accorcia le distanze, crea uno spazio nello spazio e poi. E poi le prende la mano. E c’è un silenzio irreale in quel momento, il frastuono è emotivo: due mani si stringono, le dita si intrecciano, e poi è danza: la danza del servizio, in piedi: perché gli uomini hanno bisogno di appoggiare la quasi totalità del corpo nel Cielo: e che le mani possano tornare a impastare il bene, a mescolare attenzioni, a cucinare relazioni.
Danzare la carità. Avere occhi che si accorgono di chi sta male, e parole in grado di raccontarlo e il coraggio di chiedere aiuto a Dio. E poi avvicinarsi, senza mai scappare, senza mai chiamarsi fuori e prendere la mano, a sposare le difficoltà di chi abita con noi, e danzare la vita nel servizio reciproco. Questa la nostra possibile liturgia domestica. don Alessandro Deho’