
Da quando la pandemia di coronavirus ha iniziato a imperversare, la priorità è diventata quella di salvare il maggior numero possibile di vite umane e il nostro Paese, bisogna pur dirlo, è stato tra quelli che hanno scelto da subito e in modo assoluto questo indirizzo: basta guardarsi intorno per rendersi conto che non è stata una scelta scontata. C’è poi con altrettanta urgenza da affrontare una ricostruzione economica che si preannuncia epocale, tamponando nel contempo le situazioni di emergenza che riguardano le famiglie e le categorie più in difficoltà.
Ma questo non può farci perdere di vista la tenuta delle nostre democrazie, che di fronte alle emergenze vengono messe alla prova in modo particolarmente severo. La necessità di ridurre la filiera delle decisioni, di semplificare le procedure, alla temporanea limitazione di alcuni diritti fondamentali, mette i Paesi con una tradizione democratica più consolidata in una condizione estrema, che deve essere gestita con grande equilibrio. Mentre laddove la democrazia è già negata o ridotta a un simulacro, l’emergenza diventa il pretesto per ulteriori giri di vite.
Lo stato di diritto, in cui la dignità della persona non può essere intaccata e tutti sono soggetti alla legge; in cui i poteri istituzionali si bilanciano tra loro, le elezioni non sono una delega in bianco a un leader e il confronto pluralistico è assicurato a tutti i livelli, dal Parlamento ai media, non è un lusso che durante un’emergenza non ci si possa concedere. Anzi, proprio in questa situazione, quando la società si ritrova più debole ed esposta, esso costituisce una forma impareggiabile di tutela soprattutto per i soggetti più fragili, per quanti non hanno la forza di opporsi agli abusi e ai soprusi. E che corrono il rischio di affidarsi a chi promette miracoli e protezione in cambio della libertà.
Non sono questioni astratte. Tutt’altro. La ventata populista, pur con esiti differenti da Paese a Paese, ha portato all’ordine del giorno questo genere di problemi. All’interno della Unione europea ha fatto scalpore il caso del premier ungherese Viktor Orban – già sotto osservazione da parte della Ue e sospeso dal Partito popolare europeo per le sue politiche illiberali – che ha colto l’occasione della emergenza da coronavirus per farsi attribuire pieni poteri a tempo indeterminato e per ridurre ancora più di quanto non avesse fatto finora la libertà di espressione.
Se in Italia vigessero le sue regole, tanto per intendersi, coloro che in queste settimane criticano il governo finirebbero in galera. E tra questi sono in prima linea proprio i politici che pubblicamente hanno manifestato apprezzamento per Orban. Che a sua volta delle contraddizioni non si preoccupa, se da anni teorizza solennemente la “democrazia illiberale”, qualificandola per di più con l’aggettivo “cristiana”. Anche su questo uso strumentale del fattore religioso bisogna tenere gli occhi ben aperti.
Stefano De Martis