Il padrone, uomo duro

Domenica 19 novembre – XXXIII del Tempo Ordinario
(Pro 31,10-31; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30)

Il giudizio finale sarà un invito a partecipare alla gioia del padrone per i servi buoni, e comporterà una condanna inesorabile per i servi pigri. Sembra che l’evangelista abbia davanti a sé l’immagine di una comunità addormentata che tiene nascosto il messaggio evangelico per paura di perderlo.
1. Consegnò loro i suoi beni. A ciascuno di noi il Signore ha donato molti talenti, nessuno ne è privo, come dice l’apostolo: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune”.
Dio non fa scarti, e quando diciamo: “Non sono capace, non me la sento, vadano avanti i più bravi”, giustifichiamo la nostra indolenza, manifestiamo pigrizia mentale e ci dimostriamo succubi di una tentazione diabolica.
I molti beni che abbiamo ricevuto sono “per l’utilità comune”, non per la nostra soddisfazione.
Il catechismo con linguaggio biblico elenca i sette doni dello Spirito Santo, ma nel contesto attuale vorrei ricordare tre grandi doni in particolare: la Parola di Dio, ricevuta per seminarla con abbondanza; le persone che abbiamo vicino, in maniera particolare i figli; e infine la bellezza del creato, da conservare bello come Dio ce lo ha dato.
2. Il regolamento dei conti. Al suo ritorno il padrone chiede conto dei talenti lasciati in deposito. Tutti devono aver lavorato, non è sufficiente aver conservato, e la richiesta sarà severa.
A differenza dell’analoga parabola del vangelo secondo Luca, in questa c’è una verità consolante: quello che conta non è la resa, bensì il modo di operare; non è importante il risultato assoluto, ma quello relativo.
La differenza tra i dieci talenti presentati dal primo servo e i quattro del secondo è notevole, eppure entrambi ottengono la stessa lode dal padrone, perché entrambi hanno operato nello stesso modo.
Così pure a noi: non ci verrà chiesto conto di quante persone abbiamo convertito, ma di quanti abbiamo evangelizzato. Non avremo premi di produzione, perché solo Dio converte i cuori, e la misura della nostra azione non è il prodotto finale, ma l’aver fatto la sua volontà.
3. Toglietegli dunque il talento. I doni di Dio non sono un capitale morto, la Chiesa non è una sala d’aspetto, la vita cristiana, specialmente per chi ha un incarico, non è un pavoneggiamento su un sedile dorato, non è attesa sognante del ritorno di Cristo, un’attesa tranquilla della fine, ma uno sfruttamento del tempo, delle occasioni, delle energie, delle capacità.
Contrasta con questa parabola carica di energia la vita di conservazione di molti cristiani che hanno un comportamento puramente passivo: vivono di rimpianti e attendono i miglioramenti della società dalla conversione degli altri o dalle leggi dello Stato.
Il vero comportamento cristiano non è paralizzante ma stimolante, non tranquillizza le coscienze ma risveglia energie e obbliga all’attività con tutte le forze.

† Alberto