Domenica 12 settembre – XXIV del tempo ordinario
(Is 50,5-9a – Gc 2,14-18 – Mc 8,27-35)
“Tu sei il Cristo”. Pietro non sbaglia, il concetto c’è. Pietro non usa categorie vecchie e osa sporgersi sulla novità. La risposta è perfetta. Ma è un concetto vuoto. Serve un percorso trasformativo. Serve una strada. Che Pietro non ha ancora percorso. Serve una strada paziente, una costruzione esistenziale che cammini di villaggio in villaggio e che racconti, con la vita, dentro l’aria unta e quotidiana dei nostri paesi cosa significhi Cristo per me. Pietro non può saperlo. Indovina la risposta ma è senza esperienza. E Gesù lo sa bene: E ordinò severamente di non parlare di lui ad alcuno. Silenzio! E poi prova a indicare gli snodi di passaggio che serviranno a rendere esperienza la fede. Il figlio dell’uomo doveva soffrire molto (…) essere rifiutato (…) venire ucciso (…) risorgere. Silenzio. Non era questo che Pietro intendeva. Trova il coraggio. Prende in disparte Gesù è lo rimprovera! È chiara la distanza tra il concetto e l’esperienza. È evidente! Ed è evidente l’ordine al silenzio di Gesù. Che la parola diventa vera solo quando attraversa la vita.
Non è un caso che Gesù rimetta Pietro “dietro”, cioè nella posizione di chi deve attraversarla la vita. È splendido il passaggio di Gesù, è vita vera questa. Non dire nulla sulla fede se non conosci la sofferenza. O meglio ancora: sarà l’inevitabile sofferenza, come la accoglierai senza diventarne schiavo, senza farti abbruttire, senza che ti trasformi in persona violenta a dire l’eventuale tua fede. Sarà come abiterai il rifiuto, la delusione, la sconfitta, l’incomprensione, sarà il faccia a faccia con la morte, con la morte quotidiana che ci scorre accanto a dire la fede. Sarà la capacità di risorgere a sempre nuova speranza.
Fede è la costruzione paziente della vita. Una vita che si lascia segnare profondamente dal mistero della sofferenza e della morte. Una vita che non si risparmia. Che comprende che il “sapere” non esiste senza coinvolgimento totale. Che non basta dire la verità, occorre assumerla, patirla. Che le mie parole sono vere solo quando soffro, mi lascio soffrire e amo. Che la verità non esiste senza il riconoscimento di un “tu”, dell’altro, che accetto di lasciar entrare nel perimetro del mio mondo. Che ogni parola diventa vera solo quando è sofferta, segnata, appassionatamente ferita dalla vita. La fede è la vita stessa, è come danzo questo corpo a corpo con un’esistenza che devo scegliere di abbracciare. Fede è il coraggio di lasciarmi ferire. Alla fine dei tempi a dire la nostra fede saranno solo le ferite che si porteremo addosso, ferite lasciate dall’aver assunto il rischio di aver amato. Fuori dall’esperienza amorosa… non parlare di lui ad alcuno. Silenzio!
don Alessandro Deho’