
Cosa è rimasto della prolusione di Francesco al Convegno di Firenze di 5 anni fa?

Foto Agenzia Romano Siciliani/s
Cinque anni fa, il 20 novembre, Papa Francesco pronunciò al V Convegno Ecclesiale quello che può essere considerato il suo discorso più importante rivolto alla Chiesa cattolica italiana. Di fronte all’episcopato e ai delegati delle diocesi italiane, chiuse di fatto l’era inaugurata nel 1985 a Loreto, il secondo dei convegni ecclesiali decennali, che ispirò la successiva stagione del cattolicesimo italiano, caratterizzata dalla lunga permanenza alla guida della CEI da parte del cardinale Ruini, dal suo interventismo su tutti gli ambiti della vita ecclesiale, sociale e persino politica, dalla progressiva omologazione del tessuto ecclesiale nel recinto di comuni parole d’ordine e dei valori non negoziabili.
A Firenze, Francesco decretò la fine di quel corso. L’invito notificato alla Chiesa italiana dal suo Primate fu quello di abbandonare “conservatorismi e fondamentalismi” e “condotte e forme che neppure culturalmente hanno la capacità di essere significative”. In Santa Maria del Fiore, Francesco auspicò “una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa… una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”.
Ma il papa argentino chiarì anche che non toccava a lui “dire come realizzare oggi questo sogno” ma “spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”. Quali frutti portò quell’intervento? Oltre a diversi sinodi diocesani, per i quali è auspicabile che il documento finale non finisca in un cassetto, non molto di più. L’idea di un Sinodo come attuazione dell’indirizzo dato dal Papa a Firenze, lanciata dal direttore de La Civiltà Cattolica, Padre Antonio Spadaro, nel febbraio 2019, fu accolta con favore dal Papa pochi mesi dopo, all’assemblea generale della CEI, ma sembra essere velocemente tramontata nell’indifferenza o nella diffidenza delle diverse componenti della Chiesa italiana.
Cinque anni dopo non sembra essere stata prodotta alcuna elaborazione sul modo in cui la comunità cattolica italiana possa vivere il “cambiamento d’epoca” e le sue nuove sfide né su come agire come Chiesa missionaria in uscita, capace “di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”, come chiese Francesco a Firenze.
I tre sentimenti da assumere – umiltà, disinteresse, beatitudine – e le due tentazioni da evitare – confidare in strutture, progettazione e rigidità dottrinaria, mortificando ogni creatività; rinchiudere la fede nel rispetto delle norme canoniche e nell’autoreferenzialità – che il Vescovo di Roma indicò quel giorno, non hanno innervato alcuna riflessione o azione degna di nota. Francesco stesso ne è consapevole.
Nel 2019, al Convegno della diocesi di Roma disse con amara ironia: “Ma oggi, se io domandassi: Ditemi qualcosa del discorso di Firenze. Eh, sì, non ricordo…. Sparito. È entrato nell’alambicco delle distillazioni intellettuali ed è finito senza forza, come un ricordo”.

Eppure le sfide a cui rispondere, trasformandole in opportunità di uscita missionaria non sono poche. Per esempio Padre Bartolomeo Sorge, un anno fa, su La Civiltà Cattolica, riteneva che un “probabile Sinodo” avrebbe potuto dare risposta al fatto che un pezzo consistente della Chiesa italiana – strumentalizzata, aggiungiamo noi, o in simbiosi con aree culturali e politiche della destra europea e americana – viva un rapporto conflittuale con il Vescovo di Roma, oggetto di attacchi violenti, spesso provenienti dall’interno della Chiesa stessa, fino alla richiesta di dimissioni o allo sfoggio di slogan tipo “il mio papa è Benedetto”.
Sempre Sorge, nel medesimo contributo, si chiedeva cosa dire di fronte a chi estorce il consenso dei cittadini con la paura e con l’odio, nascondendosi dietro una falsa religiosità, mettendo in pericolo la convivenza civile e quale intervento la Chiesa italiana potrebbe pronunciare, alla luce del Vangelo e del magistero, sul fatto che milioni di fedeli – non esclusi sacerdoti e consacrati – condividano, o quanto meno appoggino, concezioni antropologiche inconciliabili con la visione evangelica dell’uomo e della società.
Ma un cammino sinodale potrebbe anche chiarire il contributo dei cattolici alla costruzione della società comune. Francesco a Firenze ricordò che “i credenti sono cittadini, la nazione è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”.
Tra nostalgie di un passato non replicabile e tentativi di improbabili partitini “al profumo di incenso”, secondo il titolo di un recente articolo di Alberto Melloni, il cattolicesimo italiano non riesce a darsi forme di protagonismo pubblico significative, laiche e al passo con i tempi. Quale prezzo, in termini di autorevolezza e credibilità, rischia di pagare la Chiesa italiana – e con essa la comunità civile in cui vive – non affrontando i problemi che la interpellano?
(Davide Tondani)