
Ci perdoni il grande critico letterario Luigi Russo, se, indegnamente, ci permettiamo di fare un parallelo con la sua celebre recensione a proposito de “I promessi sposi”: infatti, con una geniale intuizione, Russo individuò come vero protagonista del capolavoro manzoniano, non tanti i vari personaggi che si accavallano sulla scena, ma il secolo in cui la narrazione si svolge: il seicento; e così la sensazione che si ha, una volta terminata la lettura del romanzo del pontremolese Domenico Bertoli, “Rosso sangue come la Ferrari” è che il vero protagonista della vicenda non siano tanto i vari attori che si muovono guidati dalla penna dell’autore, ma un luogo fisico, ovvero Pontremoli.
Una città vista con occhi diversi dai vari componenti del romanzo ma che diviene sempre metro di confronto e di analisi con la realtà, come se dalla vetta del Campanone si stagliasse una sottile linea che guida, come dei pupazzi, le azioni dei vari protagonisti della vicenda con forti colorature gialle e thriller. Ma che ha sempre, nella descrizione della città del Libro, nei suoi riti e nelle sue tradizioni, uno dei suo momenti chiave.
Una Pontremoli a due dimensioni, perchè l’intreccio si interseca, da un lato tra una Pontremoli anni ’50, ancora antica e contadina, e una degli anni 2000. Sì perchè la storia si snoda lungo le ricerche del personaggio principale Paolo (giornalista che dopo anni vissuti a Milano decide di ritornare nella sua città natale) che si trova ad indagare sulla morte dello zio che, ad una prima sommaria e sbrigativa osservazione, pare essere semplicemente legata all’età dell’anziano.
Ma c’è qualcosa che non torna e il “fiuto” del giornalista permette a Paolo di andare alla scoperta di una realtà torbida e misteriosa che riguardava la giovinezza dello zio. Un viaggio nel passato in cui, però, ci accompagna anche lo stesso Bertoli con degli intermezzi (il passaggio è reso immediatamente nel libro con l’inserimento del carattere corsivo) in cui si viene catapultati in questa Pontremoli del passato, in cui una banda di giovani, con il sogno ed il mito della Ferrari, compiono piccoli atti criminali. A guidarli una donna misteriosa, affascinante e senza scrupoli, che porterà la banda a compiere un delitto che segnerà la fine di questa piccola gang.
Con l’impegno, da parte di tutti i componenti, di mantenere il segreto su quanto successo. Ma con il tempo questo muro di omertà rischia di sgretolarsi… Si arriva alla fine del libro, con il fiato in gola, merito di una scrittura asciutta, scavata, essenziale, con lo stigma dell’autenticità. Le parole che Bertoli utilizza sembrano indicare un’ispirazione precisa del suo stile una lingua limpida e spoglia, senza inutili fronzoli. Una schiettezza a volte quasi brutale, come, del resto, bestiale e crudele può essere la realtà.
Tratto distintivo del romanzo è senza dubbio il confronto con il passato, da un lato Paolo che ritrova le sue radici, desiderate ed amate, ma anche dolorose e soffocanti, e dall’altro la verità del passato che spunta fuori con il suo inevitabile carico di tragedie ma anche di sincerità che contribuisce a fare chiarezza nell’animo di Paolo. Un finale che non dà una “morale” o comunque una risposta inequivocabile da applicare all’esistenza ma che indica solo l’importanza di entrare in relazione con la volontà di comprendere e di conoscere.
Con l’identità personale che si allarga a quella delle collettività e che ci offre un modo per rileggere il passato e per illuminare il nostro presente.
Riccardo Sordi