Domenica 24 novembre. XXXIV del Tempo ordinario – N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo
(2Sam 5,1-3; Col 1,12-20; Lc 23,35-43)
Gesù è stato crocifisso, con l’accusa di sobillazione, essendosi proclamato “Re”. Questa è solo la motivazione ufficiale, quella vera è che per le autorità religiose ebraiche era un empio bestemmiatore, cosa alla quale però i Romani sarebbero stati indifferenti. Per gli occupanti della Palestina, un bestemmiatore contro il dio degli Ebrei non è una minaccia.
Un “Re” invece sì, considerato soprattutto il sentimento ribelle che la popolazione cova ancora e continuerà a covare nei secoli a venire. Perché un re è un simbolo sotto cui riunirsi, un capo da seguire, un’autorità da riconoscere al di sopra delle altre. Nel popolo ebraico era stato profetizzato da secoli il ritorno della “stirpe di Davide” che avrebbe ricondotto Israele al trionfo, alla libertà e ai fasti di un tempo, ma anche al di fuori del popolo ebraico, e persino ai giorni nostri, è forte il sentimento di bisogno di un capo carismatico, un uomo da cui farci trascinare, un uomo cui affidarci ciecamente e acriticamente in vista di una qualche vittoria e radioso futuro.
La Storia è piena di figure così. Grandi guerrieri, o retori, che hanno fondato imperi o che ci hanno provato, ma nel cui nome, inevitabilmente, sono stati sparsi fiumi di sangue. Gesù non è quel tipo di “re”, anzi lui rifiuta quel modello, il modello eroico che nel mondo antico era l’unico concepito e che ancora adesso ha su di noi un incredibile ma diabolico fascino.
Lui è un ‘re’ che si abbassa al livello degli ultimi della società, un ‘retore’ che odia i discorsi campati in aria e le elucubrazioni sofistiche, preferendo brevità e concretezza, e un ‘guerriero’ che accetta con mitezza una morte ingiusta, senza muovere un dito per salvarsi. Alla sensibilità dei suoi contemporanei, ma anche alla nostra, specie quest’ultima parte è un comportamento assurdo.
E infatti viene deriso, sia dal popolo che fino a un giorno prima lo adorava (“sic transit gloria mundi”), sia dai capi dei sacerdoti che sono stati artefici del suo supplizio, sia dai suoi aguzzini romani, sia da un suo stesso compagno di agonia che con rabbia gli chiede “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!” Probabilmente non ha mai incontrato Gesù fino a questo momento, ma da come parla è chiaro che anche costui attendeva il nuovo regno di Israele. E vedere il suo Messia, l’uomo che avrebbe dovuto guidare il popolo ebraico alla vittoria contro gli oppressori, lasciarsi morire in questo modo, lo offende e lo fa infuriare.
Ma l’altro lo apostrofa, pur nella stessa situazione: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. Questi non vede in Gesù una qualche presuntuosa speranza tradita, solo un innocente che non merita di soffrire. E gli rivolge una preghiera rivelatoria: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
Tutti i grandi re, a lungo andare, hanno attirato a sé sicofanti e ipocriti, coperti da una patina di fedeltà dovuta solo al desiderio di prendere parte alla gloria e al potere del leader. Il criminale appeso a una croce accanto a Gesù lo riconosce come re, ma non chiede di essere salvato, come vorrebbe quell’altro, né di essere guidato da lui nel Regno dei Cieli. È un umile peccatore e gli basta una cosa sola: che Gesù si ricordi di lui. E il Figlio, spiazzando lui e noi, dà una risposta di speranza rivolta a tutta l’umanità: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.
Il regno di Gesù non è su questa terra. È il Regno dei Cieli, di una grandezza, forza e bellezza incomparabili a qualsiasi umano impero sia mai stato fondato. E a differenza di questi, eterno.
Pierantonio e Davide Furfori