Domenica 11 agosto. XIX del tempo ordinario
(Sap 18,6-9; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48)
Gesù insiste sul tema della ricchezza terrena come effimera: “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.
E ripete l’avvertimento ad essere sempre pronti alla chiamata del Padre, senza crogiolarci in false sicurezze: dobbiamo essere come i servi che aspettano il padrone di ritorno dalla festa: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”.
Dio ha fiducia nell’uomo. È proprio come un padrone di casa che parte e affida la sua casa ai servi. È pieno di fiducia, non nutre sospetti. Ci ha affidato le persone, e il mondo intero, dicendo a ciascuno: “Mi fido di te”. Il cristiano è chi si lascia conquistare da un Dio che ha fiducia in lui.
Oggi il Figlio ci spiega che la dimensione fondamentale del Regno di Dio è il servizio. Ma la piramide è rovesciata: in cima i servi più umili, e alla base di tutto il Signore stesso. “Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”.
L’atteggiamento si definisce anche nell’abbigliamento. I capi del popolo e i farisei “amavano camminare in lunghe vesti”, per essere onorati e salutati. Gli uomini indossavano tuniche lunghe fino ai piedi; più erano lunghe, più la persona che le indossava era considerata importante. Ma l’onore non sta nella veste lunga, che impedisce di camminare comodamente e di fare qualsiasi lavoro manuale.
Sta nel mettersi al servizio, facendo come i servi, che, per sbrigare le faccende domestiche, e per camminare più rapidamente, si sollevavano la veste, e la legavano ai fianchi, ben stretta, perché non cadesse. La veste legata ai fianchi, e il grembiule che Gesù cingerà per lavare i piedi ai discepoli, sono il distintivo del cristiano. I padroni terreni viaggiano, per affari o per divertimento, e, quando rientrano, a qualsiasi ora, esigono una servitù pronta e disponibile.
Ma, nel Regno, il Signore, quando rientra in casa, si lega ai fianchi la veste, per mettersi al servizio. Il nostro tempo qui, prima dell’eternità, è tempo di attesa. Anche i servi della parabola attendono il ritorno del loro padrone, protesi verso un futuro che si realizzerà in un momento imprecisato. I nostri contemporanei sono abituati, dalla tecnologia e dalla cultura digitale, a tempi di attesa brevi.
Oggi più che mai l’attesa crea fatica, tensione e disagio. Basta avventurarsi nelle strade per esserne contagiati: un ritardo ad un semaforo crea nervosismo, le file allo sportello e i ritardi nei mezzi pubblici determinano scoraggiamento e insofferenza. Ma l’attesa è inscritta nei nostri ritmi biologici: la gravidanza è attesa fiduciosa, anche se oggi si è trasformata in ansia di perfezione.
Ma, perché un seme diventi fiore e poi frutto, ci vuole tempo. Il sole e la luna devono fare il loro corso, e la notte deve trascorrere prima che il chiarore del giorno irrompa. Il Signore ha inscritto la categoria dell’attesa nella creazione, e ne ha fatto qualcosa di ineliminabile.
Pierantonio e Davide Furfori