
Serve un nuovo patto ma il sovranismo non è la strada da percorrere

La prossima settimana, tra giovedì 23 e domenica 26 maggio 2019, circa 400 milioni di europei si recheranno alle urne per eleggere i loro rappresentanti al Parlamento Europeo; l’esercizio del voto per l’Europa avviene in una fase in cui l’Unione sta affrontando problemi cruciali, dalla Brexit al risorgere di quei nazionalismi che tanti danni hanno procurato nel corso del Novecento.
Si può obiettare che il potere decisionale nelle mani degli elettori sia in realtà poco: il Parlamento di Strasburgo/Bruxelles condivide il potere legislativo con il Consiglio Europeo (cioè con l’organo che riunisce i governi degli Stati membri) e i parlamentari europei non possono presentare proposte legislative, ma solo discutere quelle presentate dalla Commissione Europea, cioè dal “governo” dell’Unione, che non è espressione diretta dei cittadini.
Il voto degli elettori, tuttavia, potrà influenzare in modo importante il futuro di un’Europa che si trova in bilico su di un crinale: da un lato il rilancio del progetto europeo, dall’altro un circolo vizioso di crisi e divisioni dagli esiti non scontati.
L’Europa oggi è più necessaria che mai. Chi afferma il contrario deve spiegare in quale modo Paesi di qualche decina di milioni di abitanti possano resistere da soli agli urti di un sistema globale nel quale dominano Stati da centinaia di milioni di abitanti come Cina, India o Stati Uniti e vi sono imprese multinazionali con fatturati annui più alti del Pil dell’Ungheria del nazionalista Orban.
Certo, negli ultimi anni l’Unione Europea ha dato risposte sbagliate al problema della recessione globale. Il primato del mercato sulle politiche pubbliche e il primato degli interessi particolari sulla coesione dell’Unione hanno mostrato il loro fallimento con il dramma politico e umanitario della Grecia, negli stessi anni in cui Stati Uniti e Cina hanno rilanciato – nel bene e nel male – il ruolo dello Stato nei processi di governo della globalizzazione.
Un Parlamento con 751 deputati; quelli eletti in Italia sono 73
Il Parlamento europeo è composto da 751 deputati eletti a suffragio universale diretto nei 28 Stati membri dell’Unione; restano in carica per cinque anni e sono raggruppati per affinità politiche e non per nazionalità.
I seggi sono ripartiti in base alla popolazione di ciascuno Stato membro; il Paese che elegge il maggior numero di deputati è la Germania (96), seguita da Francia (74), Italia (73), Gran Bretagna (73), Spagna (54) e Polonia (51).
Più staccati ci sono poi Romania (32), Paesi Bassi (26), Belgio (21), Repubblica Ceca (21), Grecia (21), Ungheria (21), Portogallo (21), Svezia (20), Austria (18), Bulgaria (17), Finlandia (13), Danimarca (13), Slovacchia (13), Croazia (11), Irlanda (11), Lituania (11), Lettonia (8), Slovenia (8), Cipro (6), Estonia (6), Lussemburgo (6), Malta (6).
Il tema non è quindi schierarsi tra europeisti da una parte e “sovranisti” o “populisti” dall’altra. Troppi politici – i Macron e i Calenda e le Bonino da un lato, gli Orban, i Salvini e le Meloni dall’altro – cercano di lucrare su questo scontro. Stare con l’Europa non significa sostenere la linea politica e istituzionale dell’Unione negli ultimi anni, l’austerità e le “riforme strutturali”; significa piuttosto aprire una riflessione su un’ Europa possibile, alternativa: sia ai falchi dell’austerità e del rigore, sia a quanti pensano che tornare alle monete nazionali e al fare ognuno per conto proprio possa essere la scelta vincente, soprattutto in un paese come l’Italia, con il terzo debito pubblico del mondo sviluppato e con una collocazione geografica che la esporrebbe ad affrontare in solitudine, ancor di più di quanto è accaduto, i flussi migratori.
L’Europa di cui c’è bisogno deve derivare da un progetto condiviso ed inclusivo, che rifiuti la logica della “trojika” che punisce chi non fa “i compiti a casa” e di chi erge muri e posa fili spinati brandendo l’identità nazionale. In un continente privo di basi comuni di lingua, storia, cultura, identità questo è un compito difficile ma urgente: non si può eludere questo passaggio pensando che l’integrazione europea sia irreversibile e possa essere irrobustita con un po’ di Erasmus o di Interrail: serve piuttosto recuperare il modello sociale basato sul welfare, l’attenzione alle disuguaglianze e la centralità della persona che hanno contraddistinto l’originario progetto europeo. Si tratta di una sfida che coinvolge tutti.
Anche i cristiani, che di questo progetto sono stati protagonisti fin dall’inizio, con i fondatori De Gasperi, Schumann e Adenauer, tre cattolici vissuti sulle frontiere dell’ Europa delle guerre, e successivamente con Delors e Prodi, i cristiano-sociali realizzatori dell’euro e dell’allargamento ad est. L’atteggiamento delle Chiese cristiane rispetto all’ Europa non è attualmente univoco.
E anche tra i cattolici le differenze di vedute sono ampie: basti pensare all’atteggiamento non certo antinazionalista che si osserva nel tessuto ecclesiale ungherese o polacco. La Commissione degli episcopati della Comunità europea, in vista delle elezioni ha interpellato i cristiani per la costruzione di un bene comune che vada al di là degli interessi particolari e nazionali.
Sarebbe importante che da questo appello partisse una riflessione sul rapporto attuale tra cristiani ed Europa.
Davide Tondani