
Nata nel Lancashire e cresciuta in Irlanda, Sara Baume ha scritto racconti e saggi ben apprezzati prima di esordire con questo fiore frutto foglia fango (edizione NNE, traduzione di Ada Arduini pagg. 237 euro 18). Siamo in un piccolo paese sulle coste dell’Irlanda dove vive Ray che a cinquantotto anni si è costruito un mondo personale particolare e quasi soddisfacente. La madre è morta quando lui aveva due anni ed intorno a quell’evento aleggia forse un mistero; il padre è mancato da poco ed anche qui forse c’è qualcosa che non va; ma del resto Ray non è un gran comunicatore: vive di una pensione sociale, in una casa di proprietà dei genitori, non ha frequentato le scuole pubbliche, lo si direbbe lievemente ritardato, si fa bastare quello che ha senza rapporti con la comunità dalla quale peraltro non appare infastidito.
La sua vita trascorre tra minime incombenze casalinghe, passeggiate in solitario e lunghe riflessioni che lo portano a considerare ciò che gli è accaduto finora in una sorta di monologo interiore col quale del resto seguiamo gli eventi. Un giorno, un po’ inaspettatamente, decide di aggiungere un cane alla sua solitudine; al canile se ne fa affidare uno un po’ malandato con un occhio in meno frutto di una crudele consuetudine locale che contrappone i cani ai tassi in combattimenti forse clandestini. Il cane si rivela un buon compagno ma rivela anche la caratteristica di non sopportare la vista o il contatto coi suoi simili.
Per questo durante le passeggiate sempre più frequenti del duo, occasioni di interminabili dialoghi in una sola direzione attraverso i quali pian piano emerge la vicenda umana di Ray, accade che Unocchio (come è stato battezzato il cane) si avventi contro altri suoi simili suscitando ovviamente le proteste ed il risentimento dei proprietari accompagnatori. Dopo uno scontro più violento di altri l’uomo capisce che ben presto arriverà qualche denuncia e si troverà a dover avere a che fare con le autorità che lo perseguiranno.
Decide allora di allontanarsi con Unocchio e a bordo della propria auto (è regolarmente munito di patente e possiede il mezzo appartenuto al padre) si muove lungo la costa in una specie di giro intorno all’isola. È attrezzato per poter risiedere in auto e pur nelle naturali difficoltà che si possono presentare si sente bene, quasi libero dalla normalità del quotidiano che in qualche modo lo limitava in casa e, sopratutto, con un amico che pur esprimendo a volte contrarietà, gli dimostra affetto e comprensione.
Il giro però non può durare in eterno, anche per ragioni pratiche, ma comunque ha consentito all’uomo di poter misurarsi compiutamente coi suoi limiti, aver fatto chiarezza nella sua storia e permettersi di ipotizzare anche un finale della stessa in consonanza col confronto definitivo che ha fatto con se stesso e, sopratutto, nel rispetto delle esigenze e delle caratteristiche (psicologico – culturali arriverei a dire) del suo, in fondo, straordinario compagno di viaggio.
Scritto in prima persona si rivela un’opera vivace e provocatoria che se da una parte ricorda, come ha notato il grande scrittore irlandese Joseph O’Connor, J.M. Coetzee o Cormack McCarthy per le descrizioni animali nel divertente, tragico, comico, surreale, realistico, malinconico, felice, innocente, provocatorio percorso del soliloquio una struggente malinconia rivolta con poetica aderenza al valore della vita quando nella essenzialità di un’amicizia troviamo il senso più profondo del nostro essere al mondo e capiamo in maniera definitiva perchè ci siamo e verso dove andiamo, magari con un cane, perchè no?
Ariodante Roberto Petacco