
Domenica 22 ottobre, XXIX del tempo ordinario
(Is 45,1.4-6; 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21)
I farisei sono stati più volte sbugiardati da Gesù, che di loro ha smascherato l’ipocrisia davanti a Dio e agli uomini. Si riuniscono a consiglio, cercando un modo per mettere in trappola questo fastidioso predicatore. Ne trovano uno che considerano infallibile, e inviano a Gesù i loro discepoli (in modo da non farsi scoprire), che dopo un’introduzione lusinghiera (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”), gli pongono una subdola domanda: “è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”
Qualsiasi sia la risposta, Gesù è in trappola: se dice che non è lecito, verrà denunciato come sobillatore e condannato dalle autorità romane; se dice che è lecito, si sbugiarderà davanti a quei discepoli che vedono in lui il leader della rivolta all’invasore. Gesù non è leader di nessuna rivolta, ma non per questo si lascia cadere in quello che ha riconosciuto essere un tranello: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo.”
Presentatagli una moneta, ora è lui a fare una domanda, delle cui implicazioni i discepoli dei farisei non si rendono conto: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?” I suoi interlocutori, supponendola una domanda sciocca, rispondono: “Di Cesare.” È esattamente ciò che voleva sentire Gesù, che così conclude, pronunciando una delle frasi più famose di tutto il Vangelo: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.”
La frase è famosa, ma spesso viene citata a sproposito, come metafora di una qualche promozione della “laicità” dello Stato, ed è spesso con questo significato usata da chi vorrebbe relegare la religione nella “sfera personale” di ciascuno, privata, silenziosa e sterile.
Quello che Gesù sta dicendo è allo stesso tempo più semplice e più profondo. Per prima cosa è da notare che Gesù non menziona, nella sua frase, un “tributo”, ma solo un “rendere”. Il denaro è già di Cesare, per cui non c’è nulla di male a restituirglielo. Il denaro non appartiene a Dio. Il denaro è qualcosa che ci viene dato non da Lui, ma dal prossimo, sia esso l’autorità o la comunità, e che al prossimo va restituito, come è giusto che sia per qualsiasi debito.
Quella che Gesù smonta con sottigliezza è l’idea che il denaro sia nostro. Niente è nostro. Abbiamo tutto in prestito, e un giorno, si tratti della nostra casa, dei nostri vestiti, dei nostri soldi o della nostra vita, lo dovremo restituire.
Pierantonio e Davide Furfori